Qualche giorno prima di Natale passeggiavo per le vie del centro immerse in quel fermento allegro e un po’ scomposto che trascina fiumi di persone tra negozi come Tiger e Dmail. Tutti alla ricerca di un regalo dell’ultimo minuto per quei parenti che si vedono solo a Natale, volti che sfumano anno dopo anno nei ricordi per il poco tempo passato insieme, troppo poco per scoprire davvero chi sono, cosa sognano. Così, si finisce per scegliere qualcosa di semplice, economico, ma capace di far sorridere: una tazza con una scritta improbabile che finirà dimenticata in fondo a una credenza, accanto a coperchi spaiati e piatti scompagnati, o un paio di ciabatte buffe, pronte a diventare il nuovo gioco preferito del cane.
Non avevo intenzione di fermarmi in un negozio, stavo solo tornando a casa da un allenamento, il borsone dondolava come un metronomo al ritmo del mio passo veloce. Ma poi qualcosa, forse una luce calda o un riflesso inaspettato, mi ha attirata verso una vetrina. Quest’anno non avevo nemmeno montato l’albero. A che scopo, mi dicevo? Inutile negarlo: da mesi trovo conforto solo rannicchiata sul divano, abbracciata al mio cane, cercando di respirare insieme al suo petto caldo e regolare, un tentativo ingenuo di domare le pulsazioni scomposte del mio cuore.
Avevo paura di tornare a casa per Natale. Paura di affrontare i ricordi: quelle tavolate caotiche, circondate da sedie sgangherate e poggiapiedi trasformati in sgabelli per far posto a tutti, mi si schiantavano addosso come onde gelide di nostalgia. Era il primo Natale senza la nonna, un altro senza il nonno e mio padre. Ogni posto vuoto sembrava un promemoria crudele dei miei fallimenti, ogni voce assente un’eco del mio dolore. Quel tavolo che si accorciava anno dopo anno mi dava l’impressione di una resa silenziosa, un’arresa al tempo e alla perdita.
Vorrei aver avuto più tempo con loro. Vorrei che mio padre avesse potuto vedermi crescere, conoscermi davvero, magari arrivare a un rapporto più maturo, meno segnato dalle incomprensioni della giovinezza. Ma non mi è stato concesso. Così ora cerco il suo riflesso negli uomini adulti che incrociano il mio cammino. Mi aggrappo a loro con un affetto a quasi disperato: il padre del mio compagno, il mio personal trainer, persino il vecchietto che gestiva il garage davanti casa. Quando ha abbassato la saracinesca per l’ultima volta, ho pianto come si piange un addio, sapendo che non ci sarebbe più stato al mattino, né a salutarmi quando portavo fuori il cane. In ogni volto di questi uomini rivedo un’ombra di mio padre, un’eco familiare che mi accompagna silenziosa.
Eppure, qualcosa mi aveva spinto verso quella vetrina. Tra decorazioni anonime, una pallina a forma di trapano ha catturato la mia attenzione. Era uno strumento che avevo visto mille volte nelle mani di papà. L’ho presa: le dita si sono coperte di glitter, e gli occhi, di lacrime. L’ho comprata e l’ho infilata in tasca. “Papà, vuoi dirmi che sei ancora qui?” mi sono chiesta, riprendendo il cammino.
Pochi passi dopo, ho notato una bancarella di libri usati, quelle che avvolgono Via Po come un mantello elegante e familiare. Tra i titoli, una copia de Il matematico impertinente di Piergiorgio Odifreddi, il primo libro che mi aveva regalato mio padre. Non era un caso. L’ho sentito. Sono tornata a casa, ho tirato fuori l’albero e l’ho montato, con una cura che non mettevo da anni. Ogni addobbo trovato negli scatoloni era un piccolo frammento di ricordo, e, tra tutti, quella pallina a forma di trapano brillava come un faro.
A Natale, la casa è stata una carezza gentile. Ho imparato ad abbassare la guardia, ad accettare che le nostre vite si intrecciano con quelle di persone che chiamiamo “famiglia” e che, come ogni altra persona che incrociamo nella vita possono essere imperfette, fastidiose o simili a noi. Ma quello che ho capito negli ultimi mesi è che non posso più cercare il mio riflesso negli altri né farmi ferire quando non lo trovo. Ho capito che il calore della stufa nella stanza in cui sono cresciuta può essere un conforto, ma è anche il momento di creare qualcosa di mio. Con la famiglia che sto costruendo, con i riti che nasceranno. E mentre guardavo le luci dell’albero riflettersi negli occhi del mio compagno, ho sentito di essere pronta. Pronta a lasciare andare il passato e a costruire nuovi momenti famigliari in cui cullarmi.
Sono certa che molto del senso di inadeguatezza che proviamo, e che si amplifica durante le feste, abbia radici anche nei social media e nell'uso che, per oltre vent'anni, abbiamo fatto di queste vetrine digitali. Questi spazi, nati come strumenti di connessione, si sono trasformati in veri e propri campi di battaglia, dove ognuno, spesso inconsapevolmente, si impegna a costruire una versione ideale di sé, una sorta di brand personale sempre in competizione con gli altri.
La pressione è incessante: ogni post, ogni immagine, ogni storia diventa un’occasione per dimostrare qualcosa — successo, felicità, creatività, appartenenza. Eppure, in questa corsa sfrenata alla performance, si perdono i contorni della realtà. Le vite che vediamo sui social sono curate, filtrate, rese straordinarie, creando un divario insormontabile con la quotidianità di chi guarda. Durante le festività, quando le immagini di tavole perfette, sorrisi impeccabili e regali scintillanti si moltiplicano, quel divario si fa più evidente, accentuando la percezione di non essere mai “abbastanza”.
Ma il problema non è solo nell’apparenza o nella competizione. C’è un aspetto più sottile, e forse più insidioso: la frenesia con cui consumiamo i contenuti. Le “storie” — frammenti di vita effimeri, destinati a sparire in 24 ore, i TikTok, che hanno trasformato il linguaggio anche di Instagram e YouTube con Reels e Shorts — ci abituano a un’attenzione superficiale e a un ritmo incessante. Non c’è tempo per riflettere, per assimilare, per capire. Questa velocità mette in crisi l’etica condivisa, quella bussola morale che ci guida nel distinguere cosa sia giusto o sbagliato. Quando tutto è ridotto a un like o a un breve commento, quando il valore delle cose è determinato dalla quantità di visualizzazioni, diventa difficile trovare uno spazio per il confronto autentico e per la riflessione.
E così, i social non sono più solo luoghi di espressione personale o di relazione, ma diventano uno specchio deformante. Riflettono versioni distorte delle nostre vite, amplificano insicurezze e mettono in dubbio i valori fondamentali che, in teoria, dovrebbero unirci come comunità. Durante le feste, quando il richiamo a ritrovarsi e celebrare dovrebbe essere più forte, i social rischiano di frammentare ulteriormente il senso di appartenenza. Ci spingono a confrontarci con immagini ideali, invece di abbracciare la realtà, con le sue imperfezioni, i suoi silenzi e la sua bellezza semplice.
Forse, per ritrovare un equilibrio, dovremmo chiederci quale ruolo vogliamo che i social giochino nelle nostre vite. Dobbiamo essere spettatori passivi di questa corsa alla perfezione o possiamo provare a costruire spazi più autentici, dove non c’è competizione ma condivisione genuina? Forse è il momento di rallentare, di spegnere lo schermo e di riconnetterci con ciò che conta davvero: un sorriso non filtrato, una tavola imperfetta ma calda, una conversazione reale che non ha bisogno di essere documentata per avere valore. A volte basta solo una pallina a forma di trapano per riconnettersi con la realtà.
Una volta, lo sapete, me la sarei presa con gli influencer. Con quei volti perfetti, sempre sorridenti, circondati da montagne di pacchi brandizzati, che aprono con noncuranza regali di cui non gli importa nulla. Con quelle decine di story in cui mostrano, uno dopo l’altro, oggetti che non hanno scelto, che non conoscono, e che, probabilmente, dimenticheranno cinque minuti dopo aver spento la fotocamera. Me la sarei presa con chi stringeva in mano il mio disco preferito di quest’anno— un regalo delle major in una versione inaccessibile per noi comuni mortali — senza nemmeno saperne pronunciare il nome, abbandonandolo su una pila di altri doni.
Li guardavo sapendo che io quest’anno ho potuto regalare poco, pochissimo. Lo scaldabagno si è rotto, e ho dovuto ripagarlo. Dodici giorni senza acqua calda, arrangiandomi con pentolini scaldati sul fornello per lavarmi. Non c’era spazio per altro. E guardare quelle scene sui social, un tempo, mi avrebbe fatto esplodere di di rabbia. Mi sarei sentita , umiliata, inadeguata.
Ma ora no. Ora vedo altro. Vedo persone intrappolate in un meccanismo più grande di loro, piegate alle logiche di piattaforme che sfruttano ogni gesto, ogni emozione, per alimentare un ciclo senza fine di desideri e frustrazioni. Non sono loro a decidere: è il sistema che li plasma, li riduce a semplici ingranaggi di un’economia dell’attenzione. Quello che fanno non è più un atto umano, ma una reazione condizionata, una deriva. Una deriva che, paradossalmente, li rende disumani.
E non è colpa loro. La colpa è delle piattaforme. Sono progettate per manipolarci, per gestire le nostre emozioni come risorse, alternando ciò che ci gratifica e ciò che ci fa stare male. In questo modo, alimentano in noi un senso di inadeguatezza costante, una competizione perenne. Perché? Perché solo così possono venderci l’antidoto sotto forma di prodotti, esperienze, vite. Ora, potevo essere felice di aver passato il Natale con la mia famiglia e di aver trascorso Santo Stefano nella mia casa, con il mio compagno e i miei suoceri con il tavolo addobbato e i regali che mi hanno fatto a mano, con un amore sincero. Comunità, oltre alla community.
Sarò sincera: è dalle elezioni di Trump che ho iniziato a sentire un rifiuto sempre più forte verso i social. Lo sapevate che Elon Musk, sostenitore della sua campagna, ha incaricato gli ingegneri di X di modificare l’algoritmo per amplificare i suoi tweet? Questo intervento li ha resi i primi nei feed di milioni di utenti, influenzando il discorso pubblico a favore di narrazioni conservatrici. Musk, come altre figure del genere, non è solo un amministratore: è un arbitro. Decide cosa diventa visibile, cosa risuona, cosa conta. E lo fa senza alcun controllo democratico, rispondendo solo alle logiche del mercato.
Quando un magnate come Musk amplifica i suoi contenuti o quelli di una precisa fazione ideologica, riscrive le regole del discorso pubblico. Quando YouTube o TikTok spingono contenuti commercialmente vantaggiosi, manipolano i nostri desideri, modellano la nostra percezione del mondo. È un trasferimento di potere silenzioso ma devastante: pochi tecnocrati decidono cosa vediamo, cosa pensiamo, cosa desideriamo. E lo fanno fuori da ogni sistema di garanzie. Il risultato è una società in cui la democrazia è erosa, in cui la libertà di scelta è un’illusione.
La domanda, allora, non è più se possiamo usare i social in modo diverso. La domanda è: possiamo ancora permetterci di usarli?
Per quanto mi riguarda, quello spazio è diventato troppo stretto. I social, così come sono oggi, semplificano ciò che è complesso, trasformano ogni interazione in uno scontro, ogni contenuto in un’arma polarizzante. Dobbiamo rifiutare questa logica. Dobbiamo ripensare tutto, riabbracciare la complessità, costruire una nuova etica. Le piattaforme possono essere strumenti di coordinamento, ma non devono essere luoghi di guerra emotiva.
So che ultimamente ho scritto poco, e mi dispiace per chi ha deciso di abbonarsi. Ma sappiate che sto lavorando a un progetto che vuole cambiare il nostro approccio alle piattaforme. È un lavoro collettivo, nato dalla collaborazione con alcune delle menti più acute della divulgazione italiana, per affrontare temi che mi stanno a cuore: etica, tecnologia, politica.
Dalla prossima settimana, mi troverete sempre meno su Instagram e sempre più qui, in uno spazio dove possiamo pensare insieme, lontano dalle dinamiche tossiche di un sistema che ci consuma. Non è una fuga, ma un passo necessario. Un atto di resistenza.
Spero che ne farete parte.
Il meccanico Cataldo, anche per me è stato un colpo al cuore quando ha chiuso. Io faccio un albero che è un accozzaglia di ricordi con palline anni '50 della mia nonna paterna, decorazioni di mia madre, altre anni '70, poi cose piì nuove, decorazioni di mia nipote quando era piccola, poi quelle di mia figlia. Non è un albero stiloso, tutto coordinato, ma è quello della mia vita, della mia infanzia, che mi scalda il cuore
Mai vista la decorazione a forma di trapano, non può essere solo una coincidenza che sia arrivata proprio a te. Quando ti leggo sento la purezza delle parole e la trasparenza dei pensieri, ti ringrazio per aprirci sempre la mente e soprattutto per l’ immane lavoro che c’è dietro. Sei una professionista forte ed appassionata. Non c’ è dubbio che ti seguiremo qui.
Cari Auguri di Buon Anno ✨