È ora di costruire, insieme, la lotta per la liberazione dai social.
Il libro è finalmente qui.
Se guardo indietro, sento ancora il peso delle notti insonni passate ad analizzare i dati, le lacrime che hanno scavato solchi sul mio viso mentre scrivevo, l’ansia che si è fatta inquilina del mio petto, trascinandomi sempre più a fondo.
Ma ora quelle parole non sono più solo mie. Sono qui, impresse sulla carta, pronte a respirare altrove. A pesare su altre mani, a scorrere in altri occhi.
Quattro anni. Quattro anni intensi, di devozione e frustrazione. Tante volte ho visto le mie parole comparire in articoli, video, libri che non erano i miei, in cui non venivo mai citata. Chi aveva più tempo di me le usava per costruirsi un nome nel mondo culturale, mentre io restavo incastrata tra il lavoro, i treni e la stanchezza. Quante volte ho pensato di lasciar perdere. Perché scrivere un libro del genere mentre lavori full-time è semplicemente folle.
Eppure, non ho smesso. Ho sacrificato tutto nell’ultimo anno: vacanze, weekend, sonno. Le notti sono diventate il mio unico spazio d’azione, le cinque del mattino il mio orario di consegna. Scrivere, dormire qualche ora, poi tornare a lavoro. In loop.
Un giorno, il mio amico Walter mi ha chiesto: “Ma perché lo fai?”. La risposta è stata immediata: per etica. Non potevo più restare a guardare. Non potevo più osservare certi video, certi fenomeni, certi trend e stare in silenzio. Avevo gli strumenti per raccontarlo, e un obbligo morale verso chi non ha voce. Questo libro è prima di tutto un atto politico.
E ora è qui.
Partiamo dalla fine per tornare all’inizio. Vi lascio i primi paragrafi dell’ultimo capitolo.
Brusio
In questo lungo viaggio abbiamo esplorato il funzionamento delle piattaforme social e il potere sottile che esercitano su di noi. Mentre mi immergevo in questo mondo fatto di cascate di contenuti, il mio pensiero tornava continuamente alle persone descritte in queste pagine. Sembrano tutte, in modi diversi, vittime di un sistema radicato e difficilmente scalfibile che agisce su una vulnerabilità universale: un’epidemia di solitudine amplificata dalle promesse digitali di connessione, visibilità e profitto.
Ma soprattutto, ricostruendo la disperata ricerca di fama e visibilità di questi profili, mi sono resa conto di essere anche io una vittima di questo meccanismo. Anche io mi sono inginocchiata al Dio algoritmo, creandomi un’identità digitale distante dalla realtà. Il mio lavoro di strategist mi ha portata ad analizzare dati su dati e, con l’aumentare della mia visibilità, mi sono inconsciamente piegata alle logiche della piattaforma che avevo assorbito: ho assecondato la sua ingordigia, insistendo sui temi che mi portavano più notifiche, commenti e consenso.
Anche quando ho deciso di limitare i post nel feed o di coprire parzialmente il mio volto, in realtà stavo plasmando un prodotto: me stessa. Parlando con persone che mi hanno conosciuta prima online e poi dal vivo, ho capito quanto fosse errata la percezione che gli altri avevano di me sui social. Mi vedevano più aggressiva, forte e risoluta di quanto io non fossi realmente. E ascoltando quelli che mi conoscono da anni, ho scoperto che ai loro occhi ero cambiata. In peggio. Per questo ho preso sempre più le distanze dai social. Nessuno sa più cosa faccio, dove vado, che volto ha il mio compagno. Mi chiedo: quanto tempo ho perso a rincorrere il consenso mentre mi perdevo la vita?
Quante volte ho abbassato lo sguardo verso uno schermo mentre mia madre mi parlava? Ora capisco quante volte avrei potuto accarezzare il suo volto sempre più stanco, invece di sfiorare questo muro di vetro.
Condurre queste ricerche è stato incredibilmente difficile. Ho visto il dolore di tante persone sgretolarsi per trasformarsi in contenuto, lo sguardo terrorizzato di chi veniva ripreso nel suo momento più buio, il volto scavato di chi era costretto a usare la propria malattia come merce di scambio. Sotto quei post scorrevano migliaia di commenti, spesso erano grida d’aiuto che rimanevano inascoltate, sommerse da una marea di reazioni rapide e distratte.
Forse è proprio questo il punto: abbiamo sostituito le comunità reali, basate su cooperazione, sostegno reciproco e connessione emotiva, con community virtuali fatte di moltitudini disordinate che non producono nulla di più concreto di un brusio indecifrabile.
La socialità si è disgregata, relegata a una dimensione precaria e individualista, più utile per costruire un pubblico da in trattenere e a cui vendere prodotti di consumo che per generare un autentico mutamento sociale.
Panico morale
Eppure, le critiche e le denunce al sistema si sono rivelate inefficaci. Lo scandalo di Cambridge Analytica ha mostrato come questa società di consulenza politica abbia acquisito illegalmente i dati personali di oltre 87 milioni di utenti di Facebook per creare inserzioni politiche mirate, capaci di influenzare il comportamento degli elettori attraverso sofisticate strategie di propaganda digitale. Il “cavallo di Troia” utilizzato per accedere a tali informazioni è stata un’applicazione chiamata Thisisyourdigitallife, un semplice quiz per l’analisi della personalità che molti potrebbero aver visto o utilizzato. Quei dati sono poi stati sfruttati per diffondere messaggi personalizzati, facendo leva sulle paure, sui desideri e sulle convinzioni individuali degli elettori su temi come l’immigrazione o la sicurezza economica, influenzando elezioni e referendum, come le presidenziali USA del 2016 e il voto sulla Brexit. Tuttavia, nonostante l’indignazione globale, nulla è davvero cambiato nel nostro modo di usare i social. Né è servito a qualcosa il clamore suscitato dai Facebook Papers. I documenti hanno rivelato che Meta era consapevole dell’impatto negativo dei suoi algoritmi sulla salute mentale degli utenti, soprattutto adolescenti, e sulla diffusione della disinformazione. Sapeva che piattaforme come Instagram potevano alimentare ansia e disturbi alimentari tra i più giovani, che la radicalizzazione dei contenuti era favorita dai suoi stessi meccanismi di engagement e che la viralità delle fake news spesso superava quella delle informazioni verificate. Eppure, ha scelto di anteporre la crescita e i profitti a qualsiasi intervento concreto. E anche se il mondo scintillante degli influencer ha subito un duro colpo con il “Pandoro gate” e il declino dell’impero mediatico di Chiara Ferragni, le dinamiche che lo sostengono restano intatte. I dati, le emozioni e i comportamenti degli utenti continuano a essere la merce di scambio più preziosa. E la macchina, nonostante tutto, continua a girare.
Scardinare questo meccanismo è difficile, perché non è imposto dall’alto, è un sistema che abbiamo assimilato e riprodotto, un ciclo che continuiamo ad alimentare, spesso inconsapevolmente. Di fatto il sistema non ha bisogno che siamo tutti veri influencer. È sufficiente che ci comportiamo come se lo fossimo, piegandoci alle stesse logiche, replicando le stesse dinamiche. Il problema non risiede solo nella mancanza di volontà da parte delle piattaforme di correggere i propri errori, ma nel fatto che le loro logiche manipolatorie sono il fondamento di un modello economico che ci tiene intrappolati in una spirale di sfruttamento emotivo e sociale.
Ho letto molte riflessioni che liquidano le preoccupazioni sul mondo dei social come semplice «panico morale», paragonandole alle ansie che, nel passato, accolsero ogni nuova tecnologia e ogni mezzo espressivo emergente: dai romanzi, accusati di corrompere le donne con fantasie pericolose, al rock’n’roll, considerato una minaccia per la moralità dei giovani, ai videogiochi, spesso associati alla violenza, fino alla televisione, che avrebbe dovuto “intorpidire” le menti delle masse. Questa linea di pensiero si basa su una narrazione rassicurante, quasi consolatoria, che riduce ogni timore attuale a un riflesso di paure storiche già superate, come se tutte le tecnologie avessero lo stesso impatto e seguissero un percorso evolutivo simile. Ma equiparare il mondo dei social alle invenzioni del passato significa ignorare le profonde differenze di scala, intensità e pervasività.
Nessuna tecnologia ha mai avuto un accesso così diretto e capillare alle nostre vite, al nostro tempo e alle nostre emozioni. Nessun mezzo di comunicazione ha mai raggiunto la capacità di personalizzazione e manipolazione che hanno oggi queste piattaforme costruite su algoritmi che non si limitano a intrattenere, ma che monitorano, influenzano e modellano i nostri comportamenti per finalità economiche.
Questa narrativa del “già visto” è particolarmente se ducente per chi trae profitto dal sistema. Ridurre le legittime preoccupazioni a isterie temporanee permette di proteggere lo status quo, di eludere le richieste di regolamentazione e di continuare ad avvantaggiarsi di un modello economico basato sullo sfruttamento del nostro tempo e dei nostri dati. Forse chi minimizza queste problematiche non coglie davvero la portata del rischio. Pochi tecnocrati, orientati unicamente alle logiche del profitto, usufruiscono a piacimento delle esperienze di miliardi di persone, ma non si limitano a sfruttare i nostri dati: ci intrappolano in bolle autoreferenziali che soffocano il pensiero critico, plasmano i nostri desideri di consumo e frammentano la nostra comprensione del mondo.
Ciò che affrontiamo con i social non è una semplice innovazione tecnologica o un cambiamento culturale, ma una profonda trasformazione antropologica che ridefinisce la nostra relazione con noi stessi e con gli altri. Liquidare queste riflessioni come allarmismi o nostalgie di un passato idealizzato significa ignorare l’entità del problema, oppure vuol dire accettare consapevolmente di essere complici di un sistema che promette un falso senso di potere culturale o sociale e intrappola anche i suoi più ferventi sostenitori in una rete di illusoria emancipazione.
Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti.
Se volete conoscere il resto, potete prenotare il libro qui. O in tutte le librerie fisiche.
Per chi viene al firmacopie a Torino il 30 marzo alle 18 presso l’Imbarchino del Valentino: nei prossimi giorno condividerò un form per prenotare la vostra copia e trovarla direttamente all’evento.
Non vedo l’ora di poterne parlare dal vivo.
Grazie per il supporto.
S.
Restituisci dignità all’espressione “atto politico”. Ti stavo aspettando ❤️ già prenotato in libreria, mi piacerebbe venire a Torino, ma sono troppo lontana. Magari, un giorno…
Wow♥️