PARTE 1: Desiderare fuori dall’immaginario capitalistico
Sono giorni che non riesco a togliermi dalla testa alcune immagini perché trovo che siano molto esemplificative di un concetto di cui vi parlo spesso: l’incapacità di prendersi per mano e ragionare in termini collettivi e di cura nonostante un mondo al collasso, ormai totalmente assuefatti dalla pervasività dell’immaginario neoliberista che ci vuole individui soli con noi stessi e in competizione con gli altri, anche nei nostri desideri.
La settimana scorsa le strade di New York sono state prese d’assalto da oltre 6.000 giovani, provocando una vera e propria rivolta che ha infiammato Union Square e che è poi culminata in feroci scontri con la polizia, numerosi feriti e oltre 60 arresti. La metà delle persone portate via in manette erano minorenni.
Ciò che ha spinto i giovani a riunirsi, il moto che ha scatenato la loro rivolta, non è stato, però, una rivendicazione politica di qualche tipo. I giovani che lanciavano oggetti e sassi alle forze dell’ordine non stavano chiedendo un salario equo, la sanità pubblica o l’accesso allo studio, in un paese di gravi disuguaglianze economiche dove il sistema legale punisce soprattutto le persone povere (migliaia di senzatetto vengono arrestati per vagabondaggio, ragazzini fermati per infrazioni leggere finiscono in galera perché i genitori non hanno i soldi per la multa o per la cauzione). E, nonostante la maggior parte dei presenti fosse afrodiscendente, gli scontri di Union Square non avevano nulla a che vedere con il movimento “Black Lives Matter” di cui, finita la FOMO successiva ai tragici eventi della morte di George Floyd, non abbiamo più sentito parlare. Ma allora, cosa ci facevano lì? La folla si è riunita a causa di un “giveaway” non autorizzato organizzato Kai Cenat, lo streamer di Twitch più popolare degli Stati Uniti, che aveva invitato i suoi 6 milioni di follower a raggiungerlo, promettendo di regalare PlayStation 5, PC, sedie e cuffie da gaming.
Inutile dire che il 21enne sfoggia continuamente uno stile di vita praticamente irraggiungibile, un individualismo edonista, basato sull’affermazione personale e sull’ostentazione del lusso come il risultato dell’acquisizione di uno status che, come sottolineava Thorstein Veblen, è un totale desiderio di emulare la ricchezza altrui, di comunicare il proprio riscatto sociale ricoprendosi ad esempio di “ghiaccio”, cioè del freddo delle collane d’oro e di diamanti.
La situazione però è degenerata rapidamente, portando la polizia ad attivare un intervento di “Livello 4”, cioè la categoria più alta per quanto riguarda le risposte ai disastri da parte delle forze dell’ordine americane, con le immagini degli scontri accompagnate da parole come “sommossa”, “maxi-rissa”, “caos”.
Qualche giorno più tardi un video diventato virale su TikTok dalla caption “Oxford Circus JD Robbery” incitava gli utenti a ritrovarsi nel negozio di articoli sportivi JD sports di Londra per compiere una rapina di massa, con tanto di richiesta di indossare guanti e passamontagna. L’intervento della polizia ha scatenato una maxi-rissa tra i giovani e gli agenti, con 9 arresti e la Ministra dell’Interno, Suella Braverman, che chiede il pugno duro contro “gesti anarchici”.
Quello che hanno in comune questi due episodi è di rendere lapalissiano il fatto che nell’era contemporanea ciò che siamo non rispecchia più un sistema di valori condivisi, il modo in cui ci definiamo come individui non è più assoggettato ai dispositivi etici, morali e ideologici che determinano il nostro agire nei confronti del mondo e degli altri, perché, ormai, ciò che siamo, passa necessariamente da ciò che possediamo, inteso come l’apparato dei beni di consumo e delle “experience” che possono posizionarci come individui all’interno di rapporti di forza declinati secondo principi di potere, spesso puramente estetici.
In questo senso, i social operano come un dispositivo repressivo, di controllo, perché, costruiscono attorno a noi un immaginario che plasma i nostri desideri e li disciplina alla conservazione del sistema, un sistema che ha al proprio centro l’overproduzione di beni di consumo.
Come sottolineato qualche giorno fa dal giornalista Federico Mello, ciò che è successo negli scorsi giorni a New York e Londra è un “causa-effetto” del sistema privo di ideali, politica e amore che abbiamo continuato giorno dopo giorno ad alimentare, celebrando da oltre un decennio “gli influencer nullafacenti e la loro ostentazione del lusso, delle marche costose, di consumi esclusivi”. Ciò che viene rappresentato attraverso i social, l’immaginario di cui ci nutriamo tutti e tutte, è uno spettacolo che impone costantemente di consumare attraverso processi di omologazione.
In “Acculturazione e acculturazione” del 1973 Pasolini parlava della rivoluzione del sistema di informazione derivato dalla diffusione di massa della televisione in modo molto simile a quello in cui potremmo parlare oggi dei social network: “Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un “uomo che consuma”, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neo-laico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane”.
Continua Mello: ”Da anni, nelle loro inutili foto, si vantano dei loro orologi da 50mila euro (Fedez, in realtà, continua a mettere in primo piano nelle sue stories la new entry firmata Hublot, un Big Bang Unico Sapphire Baguettes da oltre 500.000 euro), delle loro vacanze a 20mila euro a notte, delle loro Lamborghini, delle loro case da sogno, dei loro jet privati, e nessuno dice niente, tutti a fargli l’applauso. Poi oggi, i follower che sono cresciuti con quei modelli e che quei consumi non se li possono permettere, che fanno? Si organizzano per svaligiare i negozi”.
Il sociologo Thorstein Veblen nel saggio del 1899 “Teoria della classe agiata” spiegava perfettamente questo fenomeno: nel capitalismo, i beni detengono uno status più elevato del personale. L’autore parlava di “conspicuous consumption”, un consumo ostentativo: “la classe dominante si rivolge a beni appariscenti e di lusso perché è legata a logiche "posizionali", in cui le scelte, cioè, sono determinate dalla necessità di esibire i segni esteriori della posizione e del prestigio acquisiti nella scala sociale, che sono l'effetto, a loro volta, della ricchezza monetaria raggiunta e del benessere acquisito. A questo tipo di spesa si collega, dal punto di visto della motivazione al consumo, il comportamento emulativo delle classi più basse, che aspirano anch'esse agli stessi beni "vistosi", per simulare, in questo modo, uno status sociale esteriore opulento e superiore a quello reale, che li avvicini alle classi economiche dominanti” (WIki).
Nel mondo dei social, a sostenere gli equilibri di potere, a stratificare l’immaginario capitalistico, a determinare quello che molte volte ho definito come “tecnofeudalesimo” ci sono gli influencer, che non solo si pongono come messaggeri della spinta consumistica ma sono anche i vassalli del sistema, difendendolo: pensate a quelle influencer “attiviste” che si sono vendute a SHEIN con il finto-viaggio realizzato appositamente dall’azienda fast fashion col tentativo di riqualificarsi dopo le polemiche sullo sfruttamento dei lavoratori e il sistema produttivo oppure a Mondo Convenienza, che organizza challenge mentre i lavoratori scioperano da quasi 80 giorni per rivendicare i propri diritti, mentre vengono licenziati e picchiati.
Prima di togliersi la vita Mark Fisher tenne una serie di lezioni in cui si interrogava su qualcosa che mi rompe la testa quasi ogni giorno: desideriamo sul serio ciò che sosteniamo di volere o ciò che desideriamo è mediato dal sistema in cui viviamo, produciamo, amiamo?
Quello che si chiedeva Fisher è: esiste un desiderio post-capitalista, ossia la capacità di desiderare qualcosa che non sia già stato individuato come desiderabile dal capitalismo?
«Il capitalismo è definito da una crudeltà incommensurabile, perché ci fa morire gridando viva il capitale»
PARTE 2: I gruppi di Telegram
Come saprete, ieri Instagram ha minacciato di chiudermi il profilo perché ho postato alcuni screen di un gruppo telegram che sto monitorando da circa una settimana e in cui ci sono quasi un centinaio di migliaia di messaggi ogni giorno in cui uomini di diverse età commentano foto di mogli, amiche, sconosciute prese da Instagram e bambine. In particolare, c’è chi propone “scambi foto”, video della propria bimba, sorella o nipote. Ma ci sono anche messaggi in cui viene richiesto materiale su donne comuni, indicando il loro nome, il luogo in lavorano. È uno spettacolo agghiacciante che spero di contribuire a far chiudere.
Sarò sincera: sono molto stanca fisicamente e psicologicamente perché passare quasi tutto il mio tempo libero oltre al lavoro (e nemmeno potrò concedermi delle ferie quest’anno) ad analizzare certi fenomeni è molto debilitante, in più continuano ad arrivarmi minacce di denunce e diffide, anche quando riporto semplicemente la realtà dei fatti (tipo: influencer che incentivano i loro follower al gioco d’azzardo o a investire in guru dell’e-commerce che sono in realtà sistemi piramidali e truffe certificate).
Ad ogni modo, continuerò a fare quello che faccio. :)
Ok, se la mia newsletter ti piace e ti stai chiedendo come offrirmi un caffè virtuale (o aiutarmi con le possibili ripercussioni legali che potrei affrontare), la risposta è che puoi farlo qui: https://ko-fi.com/serenadoe
Ciao Serena, stringi i denti e continua per un mondo migliore ❤️ grazie per tutto quello che fai ❤️
Sono capitato qui per caso, non mi è ancora ben chiaro di cosa tratti questa newsletter ma mi sembra di capire che tu sia una persone con un enorme cervello e una bella tenacia.