Il 3 novembre di due anni fa, poche ore prima che Torino entrasse nuovamente nella “zona rossa”, sono scappata dalla casa in cui convivevo.
Ricordo la mia amica Marianna che viene a recuperarmi in macchina, Irene che affitta un furgoncino, Aurora che impila i miei libri negli scatoloni - Ma quanti ne hai? Dio, non finiscono mai - e le prime notti a dormire nel sacco a pelo.
Avevo paura, non avevo nemmeno i piatti e le posate per poter mangiare e, soprattutto, non avevo abbastanza soldi per ricomprare tutti i mobili, i piatti, gli accessori che avevo acquistato durante quei 7 anni di relazione. Avevo lasciato tutto lì, non volevo più niente che non fosse essere, finalmente, libera.
Quella qui sotto sono io, con il pigiama di lana con le pecorelle regalato dalla Rina a Natale, uno di quei doni che fanno solo le nonne che il sabato mattina si fanno belle per andare al mercato con gli orecchini d’oro e il cappotto per le feste e che nel viaggio in macchina tengono la borsetta stretta sotto l’ascella, mentre con l’altra mano si aggrappano a quella maniglia posta sopra il finestrino, per reggersi ai colpi di una macchina passata da decenni da un proprietario all’altro, urlando a ogni dosso “Fai piano, nani!”.
Il lockdown non ha aiutato: in quel folle periodo non era possibile acquistare le posate nei negozi di casalinghi o al supermercato, costava tutto moltissimo e non avevo nemmeno le coperte per dormire. Però si poteva acquistare online: il sito dell’IKEA è stato la mia salvezza, mettevo nella lista le cose che mi servivano e, se il costo totale diventava troppo alto, andavo per esclusione togliendo i prodotti che in quel momento mi sembravano meno necessari o che avrei potuto comprare al negozio dell’usato, appena usciti dalla zona rossa.
Lenzuola, coperte, piatti, posate, delle librerie e un tappeto. Lo volevo davvero tanto, quel tappeto colorato da 39€.
Dopo due anni, non ho ancora tutti i mobili che mi servivano e quelli che ho preso non sono quelli che avrei voluto, ma quelli che costavano meno in base a ciò che mi serviva per riempire quegli spazi. La casa, tuttavia, mi rispecchia molto: è un’ex bottega in cui creavano luci al neon. Per questo, ha i muri molto alti e due soppalchi, uno dove ho creato il mio angolo per lavorare e studiare e l’altro in camera, dove ho messo la cassettiera e gli stand con i vestiti, una soluzione più economica di un’armadio, anche se più difficile da gestire con l’allergia alla polvere. È una sorta di open space, ho separato la cucina dalla sala con 3 scaffali messi uno accanto all’altro, ho usato lo spago da imballaggio tenuto teso tra le varie lampade per appendere delle polaroid e i muri sono tappezzati di poster e film di concerti che ho visto. Il divano è piccolo e scomodo ma riesco a starci seduta con Marcellino che mi dorme accanto e quindi è perfetto così. È una semplice casa in affitto, di una ragazza che lavora da tutta la vita.
Se ho fatto questa lunga premessa è solo perché, ultimamente, vedo sui social alcuni nuovi trend che penso possano ferire le persone che si trovano in una situazione come la mia: creator poco più che ventenni che comprano casa da 200mq, e ci devono necessariamente rendere partecipi con i loro “home tour”; account che ricevono in regalo cucine, parquet, camere da letto, addirittura le lampadine a basso consumo per illuminare 24/24 le zone più belle di quegli appartamenti da milioni di euro comprati scendendo al compromesso di mostrarsi di continuo, ogni giorno.
Ho visto una creator a cui è stato regalato un divano da 3000€, tutto ciò che ha dovuto fare è stato ballarci sopra, con le mossette e le musica di uno di quei trend che vanno tanto di moda adesso.
Questa necessità di condividere lo sfarzo, il superfluo, facendolo passare per unicità a buon mercato da acquistare grazie a un codice sconto, inizia ad estenuarmi: quando ero poco più che un’adolescente ho lavorato in uno yacht club. Erano ricchi, ricchissimi, passavano le giornate lì, a mangiare manicaretti e a bere vino pregiato e, per quanto li odiassi, per quanto mi sfiniva vedere miei coetanei passare le giornate in barca mentre pulivo i cessi in cui cagavano, quella ricchezza era confinata all’interno di quel club esclusivo ed era inviolabile. Tutto attorno a quello spazio, infatti, c’erano siepi altissime, un cancello blindato, i nuovi soci dovevano ricevere un invito da almeno altri 3 membri. Il privilegio era qualcosa da nascondere, o meglio, da mostrare solo ai propri simili, in una competizione quasi quotidiana per dimostrare chi aveva di più. A me andava anche bene: se uno mi dava 2€ di mancia, quello accanto me ne dava €5 e quello dopo ancora mi allungava “un ventello”. Non c’era quell’autocelebrazione tossica che vediamo ora sui social, il messaggio di fondo non era “Se lavori sodo, se segui i miei insegnamenti, se acquisti quello che acquisto io, un giorno farai parte di questo Olimpo che si alimenta grazie ai vostri like”. No, lì il messaggio era: siamo ricchi da generazioni e facciamo il cazzo che vogliamo, anche farti tagliare le carote 20 volte finché non sono sottili al punto da rispecchiare la mia descrizione mentale di “carote alla julienne” (storia tragicamente vera). E quelle persone, sui social, non ci sono. Non ne hanno bisogno.
Il fastidio è ancora più profondo perché io con quella gente ci lavoro: spesso, i contenuti che condividono, sono mie idee che loro devono semplicemente mettere in pratica. E ci fosse una volta che capiscono che cazzo devono fare. Voi vedete la story o il post che sembrano naturali, scattati sul momento, spontanei, sinceri. In realtà, nel 99% delle volte, quei post sono stati approvati dal brand dopo decine di modifiche, finché non si giunge a un compromesso. Sono pochissimi i creator che riescono a creare contenuti innovativi e interessanti. Eppure, il mio lavoro è disciplinato da un contratto nazionale, a meno che non decidi di essere un freelance, come me. Ma ci sono comunque dei compensi abbastanza standard. Per i creator, invece, c’è il far west. E situazioni come questa:
Quello che vi voglio dire, è di non lasciarvi abbattere da ciò che vedete: è come arrabbiarsi per un film. Lo so che quelle narrazioni sono pervasive. È come se ci fosse qualcuno che vi urla nelle orecchie tutto il giorno che non valete un cazzo, che non contate un cazzo, che non vi impegnate abbastanza e che la vostra vita è una merda. Diventate sempre più nervosi, sempre più arrabbiati, quello che avete vi sembra sempre troppo poco oppure buttate nel cesso i soldi per avere almeno una sola cosa che è così bella, perché l’avete vista attraverso uno schermo tra le mani di qualcuno che vi sembrava così felice.
NO: non fatelo. Ogni esperienza di vita è valida, è unica e conta allo stesso modo. Dobbiamo solo fare in modo che la narrazione dominante sia la nostra. Che quegli schermi riflettano ora dopo ora la nostra idea di mondo. Che la verità inizi a emergere. Ho chiamato il mio blog “Diario dei miei insuccessi” perché in una società che ci vuole tutti produttivi, consumatori, stolti dinnanzi alle disparità economiche che reggono un sistema voluto da pochi per preservare i diritti di pochi, addossando tutto il peso dei problemi del mondo sulle spalle di tutti gli altri, mi rivendico la possibilità di fare schifo. Ricordatevi che ci sono molte più persone che, cambiando casa all’improvviso, dormono in un sacco a pelo non avendo i soldi per il letto che persone che hanno in regalo anche il parquet. Ricordatevelo quanti siamo, ogni volta che vi sentirete in colpa perché non siete come loro. E una volta preso atto di questo, pensate a come sarebbe facile cambiare le cose tutti insieme.
Ad ogni modo, se volete vedere dei ricchi soffrire:
Consiglio n.1: PARASITE. Finale col botto.
Consiglio n.2: TRIANGLE OF SADNESS. È ora al cinema. Vi lascio il trailer, guardatelo tutto e dico solo: ricchi che annegano nel loro vomito e nei loro escrementi.
P.S. TENIAMO DURO, ORA ARRIVA IL NATALE E SAREMO COSTRETTI A VEDERE I CALENDARI DELL’AVVENTO DA CENTINAI DI EURO, GLI ALBERI REGALATI, LE CENE E I PRANZI. Ma come dico sempre: meglio poveri che poveri stronzi.
Lo so che arrivati a questo punto vi chiederete: OMMIODDIO MA COME FACCIO A OFFRIRLE UN CAFFÈ? Potete farlo tramite ko-fi (anche se sono allergica anche a quello). Qui c’è il link: https://ko-fi.com/serenadoe
Ho vissuto anche io un trasloco durante il lockdown e ricordo benissimo la frustrazione nel doversi ingegnare alla ricerca delle posate o delle lenzuola. Ne ho passati 6 di traslochi in 3 anni scarsi e nessuno mi ha offerto neanche il porta rotolo da cucina. Molti dei mobili nell'appartamento in cui vivo ora sono di seconda mano (sempre sia benedetto Facebook Market) e vado orgogliosa della mia asciugatrice, che abbandonata in un magazzino e ricoperta di polvere, mi è venuta a costare la bellezza di 18 euro. In compenso non ho dovuto ballare di fronte a una luce al neon, anzi inizio già a pensare al prossimo trasloco.