Diario dei miei insuccessi #6
Lunedì ho pensato di morire.
Stavo lavorando al pc quando ho iniziato a sentire delle fitte al petto sempre più forti, il respiro spezzato, la testa che girava.
Sono riuscita a scendere dal soppalco aggrappata al muro e a chiamare il mio ragazzo che era fuori con il cane, mi contorcevo dal dolore urlando e piangendo, ho iniziato a vomitare, il mio aspetto era sempre più simile a quello del Nosferatu di Herzog e poi mi sono accasciata a terra.
Sono una di quelle persone che evita, se possibile, gli ospedali. Ho passato gran parte della mia vita a farmi visitare, rimbalzata da un reparto all’altro, aspettando mesi per un semplice esame, trovando, raramente, una soluzione per le mie patologie.
Inizialmente avevo scritto un lungo excursus su tutti i problemi di salute che ho affrontato negli ultimi 23 anni ma non voglio cadere in quei meccanismi che ho descritto più volte su Instagram, non voglio auto-rappresentarmi come vittima o come malata.
Verticalizzare una battaglia su una persona è uno dei grandi trend degli ultimi anni. La costruzione di personaggi ancorati a una situazione di disagio fisico o psicologico è l’ultimo dei grandi successi del capitalismo. Anche la sofferenza è instagrammabile e, pertanto, monetizzabile.
In “breve storia del neoliberismo” David Harvey definisce questa ideologia come “pervasiva”: è stata in grado di diffondersi come un virus, di infettare il nostro modo di pensare e agire plasmando le proprie forme ai nostri desideri e creando competizione tra gli individui, come “La Cosa” mostruosa descritta nel film di Carpenter.
Una competizione che fa sì che le persone sui social vogliano identificarsi anche con una specifica malattia, diventarne il volto umano, renderla il perno di una narrazione che le rende inattaccabili, sfruttando quel retaggio cristiano che vede nella rappresentazione del dolore un rituale di passaggio per essere considerati martiri, beati, santi. Condividere queste esperienze conquista il pubblico, accresce il proprio capitale commerciale e una diagnosi si può così trasformare in un mercato estremamente redditizio.
Fateci caso: quante di queste, una volta ottenuto un largo seguito, hanno poi iniziato collaborazioni da decine di migliaia di euro?
Ma cosa c’è di più perverso del monetizzare sul proprio dolore?
Non si può esprimere un dubbio, sollevare una discussione, far notare le incongruenze: queste persone risponderanno sempre che nessuno può parlare di come gestiscono la loro malattia e chi lo fa è insensibile, mostruoso.
Eppure, ad emergere, sono sempre quelle persone che poi ti raccontano di quanto sono fortunate a poter accedere alle cure migliori.
Da freelance, lunedì mattina ho pagato diverse migliaia di euro in tasse che dovrebbero garantirmi dei servizi di base, per poi andare in ospedale, farmi dire cosa NON avevo, e dover attendere mesi per sapere cosa effettivamente ho. Devo fare una gastroscopia, il primo posto libero era il 9 agosto, chiamando con insistenza sono riuscita a trovare un buco per capodanno. Funziona così, da tutta la vita. È successo così anche a mio padre, quando gli è stato detto che aveva un’ulcera e invece era un infarto che gli ha spaccato il cuore in mille pezzi, rimessi insieme grazie a un by-pass che sì, gli ha regalato altri anni di vita, ma se si fossero accorti subito forse non sarei stata privata del mio papà quando più ne avevo bisogno.
E no, non ho dimenticato la shitstorm dell’influencer che sosteneva di essere stato curato dal servizio sanitario nazionale “come tutti gli altri”, scatenandomi addosso decine di migliaia di persone.
Eppure, cerchiamo di soffermarci un attimo sulle micro-narrazioni a cui assistiamo sui social: avete mai notato come la componente conflittuale tra classi sociali sia stata totalmente accantonata?
Mi spiego meglio: chi raggiunge un posizionamento di classe borghese, gli “arricchiti”, tutte le persone che condividono case da sogno, viaggi pressoché settimanali, abiti ed oggetti di lusso, prestazioni mediche d’eccellenza, cercheranno di convincerci, prima o poi, che quel successo sia merito del loro duro lavoro.
Sono TUTTE partite da un monolocale, da grandi sacrifici, da un’idea brillante. Il contesto materiale, cioè le condizioni sociali, culturali ed economiche di partenza, la possibilità di investire tempo e denaro per creare contenuti e farli “girare” dedicando loro del budget, vengono sempre messe da parte per aderire al costrutto che definirò “Il complesso di Cenerentola”: sono tutte partite come lavandaie per poi diventare principesse. Ma Cenerentola era figlia di un nobile e aveva come madrina una fata, non la zia Roberta da Codroipo.
E mentre ci attirano attraverso uno specchio di illusioni ben costruite, facendoci credere che siamo tutti sullo stesso piano sociale, mentre le nostre dita si muovono sullo schermo dei nostri telefoni, introiettando il messaggio che ci vuole responsabili dei nostri insuccessi e della nostra povertà, la nostra capacità di unirci per rivendicare ciò che ci spetta si è lentamente spenta.
Del resto, chi costudisce il privilegio fa leva sui nostri sentimenti: le raccolte fondi, la beneficienza, i selfie con persone malate. Come Dei dell’Olimpo che scendono tra i comuni mortali, sempre a favore di camera. Un capitalismo dal volto umano che si basa su un’etica dell’autenticità che nutriamo scroll dopo scroll, like dopo like, condivisione dopo condivisione.
La verticalizzazione delle battaglie è molto pericolosa perché non possiamo mettere le nostre rivendicazioni in mano a una sola persona: guardate cosa è successo con Soumahoro. Anche io sono caduta nella trappola: l’ultimo tra gli ultimi che diventa sindacalista e usa la sua voce per sostenere battaglie condivisibili, come quella contro il caporalato, per il salario minimo, per ottenere maggiori tutele e diritti per i braccianti. L’ultimo tra gli ultimi che entra in Parlamento con gli stivali sporchi di fango sembrava un’immagine potentissima.
Eppure, come abbiamo visto, ci sono tanti lati oscuri nella sua storia. E questo farà sì che per portare avanti quelle rivendicazioni ci vorrà ancora più fatica.
Lasciare che siano altri a parlare per noi, significa accettare che i nostri ideali possano essere fagocitati dai meccanismi del sistema e risputati fuori come chimo, il cibo masticato, denso di succhi gastrici, schiacciato e privato della sua forma originale, della quale potevamo cibarci tutti.
Non cambieremo il mondo a colpi di like. Sarebbe stato facile per me farmi portavoce di diverse patologie ma mi interessa di più uno sguardo collettivo: la sanità pubblica fa schifo. La scuola fa schifo. Il mondo del lavoro fa schifo.
Siamo stati ostracizzati, come classe, dal dibattito pubblico, privati di tutto, eppure ci ritroviamo qui, a condividere su Instagram i caroselli di progetti editoriali finanziati da Università private e quotati in borsa. Fateci caso: le notizie che condividete su Instagram, quelle colorate coi numeri in evidenza, da chi vengono scritte?
Nelle ultime settimane il Regno Unito è bloccato dagli scioperi. Gli infermieri hanno votato il primo sciopero su scala nazionale nei 106 anni di storia del loro sindacato per chiedere un aumento del 17% sullo stipendio. Stanno scioperando gli insegnanti e i lavoratori delle università. I ferrovieri hanno annunciato 8 giorni di sciopero durante le feste. Hanno scioperato le Poste.
Se i nostri sindacati fanno schifo, siamo noi a doverci prendere le strade.
Stare col telefono in mano a guardare influencer aprire le caselline di calendari dell’Avvento da 500€ non servirà a crearci un futuro migliore.
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