Qualche settimana fa mia madre mi ha chiesto se potessi accompagnarla a Milano.
Non è praticamente mai uscita dal piccolo paesino sul Lago Maggiore in cui sono cresciuta, è riuscita a venire solo alla mia laurea triennale e, una volta, anni fa, l’ho portata a trovare mia sorella a Berlino per qualche giorno.
La sua richiesta mi è subito sembrata abbastanza inusuale ma mi ha riempito il cuore di gioia perché una delle grandi ferite che mi porto sulle spalle è quello di non aver mai potuto fare nulla con i miei genitori. Ho visto Godzilla al cinema con entrambi, papà mi ha portata a vedere Mulan e una volta abbiamo mangiato la pizza fuori, tutti insieme. Era una giornata speciale: l’eclissi solare del 1999. Avevano venduto tanti vetrini a chi voleva proteggersi guardando verso l’alto quella inusuale magia e avevamo potuto “festeggiare” al ristorante. Anche per la mia laurea abbiamo mangiato a casa, avevo preparato la pasta al forno il giorno prima, avevano già speso i soldi per il treno e non volevo pesare oltre su di loro, mi accontentavo della loro presenza accanto a me.
I miei genitori avevano un piccolo negozio di ferramenta, lo hanno chiuso quando la concorrenza dei centri commerciali li ha schiacciati: spendevano di più in affitto di quello che riuscivano a guadagnare. Mio padre è mancato poco dopo e sono sicura, conoscendolo, che quel fallimento ha crepato in modo troppo profondo quel cuore che era già malato. Da allora, mia madre fa la cameriera e la donna delle pulizie negli appartamenti dei ricchi milanesi che hanno la seconda casa al lago. Per quello voleva andare a Milano: desiderava comprare dei maglioni “come quelli che indossa la signora che sono di un negozio che si chiama Zara”.
Immaginate la mia faccia nel pensare di dover entrare lì dentro. Ma ero troppo emozionata al pensiero di stare tutta una giornata in giro con la mia mamma per tirare fuori il mio solito spirito critico nei confronti di certi brand.
La Graziella è forse la mia persona preferita al mondo. La patina di perfezione che mi ha richiesto per tutta la vita è stata una fonte di grande, grandissimo dolore ma crescendo ho imparato a comprendere che ogni volta che pretendeva che fossi la più brava, la più bella, la più magra, in realtà stava solo cercando di farmi aderire a quegli standard che ha introiettato per tutta la vita, pensando di aiutarmi a scappare da quel paesino sui monti, che mi sembrava una prigione fin da quando ero alle medie.
L’ho vista spaccarsi la schiena ogni giorno, lavorare al freddo, cercare di rialzarsi quando è rimasta sola. Ogni volta che torno a casa, ogni volta che mi siedo accanto a lei e alla nonna, con la stufa a legna che riscalda la stanza, sento una devastante sensazione di tenerezza nei loro confronti: conoscono pochissimo del mondo che sta dall’altra parte di quel lago incoronato da vette innevate. È come se ad un certo punto della vita avessimo fatto una capriola tenendoci per mano, ritrovandoci in un mondo sottosopra dove i nostri ruoli si sono invertiti: ora sono io a dover pensare a lei.
Mi sentivo felice a Milano mentre mi guardava fiera perché mi sono messa a litigare in inglese con una tedesca che ci ha superato in coda per fare i biglietti della metro ed ero quasi commossa mentre la facevo camminare per 2km per le viuzze del centro per farle una sorpresa: portarla in uno dei posti in cui fanno le migliori cotolette con le patatine della città, il suo piatto preferito!
Non so spiegare il senso di protezione che provo nei suoi confronti: è come se prendendomi cura di lei cercassi di ringraziarla per tutti gli inverni che ha lavorato in negozio senza riscaldamento, tornando a casa per occuparsi anche di me. Durante la pandemia ci siamo viste pochissimo: 2 o 3 volte all’anno, per un paio di giorni. Ogni volta che torno a Stresa vedo il suo viso farsi più piccolo, la sua pelle bianchissima si arricchisce di nuovi dettagli disegnati dalle rughe, i suoi enormi occhi verdi più gonfi e stanchi. Mia madre è la donna più bella che io abbia mai visto nella vita, una specie di Barbara Bouchet mora. Io, purtroppo, ho preso da mio padre. È anche abbastanza anaffettiva, nel senso, credo di aver preso da lei la mia goffaggine quando cerco di abbracciare qualcuno.
Alla fine non abbiamo trovato i maglioni che cercava ma qualcosa di molto più prezioso: un ricordo sereno in cui rifugarsi in un posto speciale della nostra memoria.
Mi rendo conto che ho sempre più bisogno di questo: stare accanto alla persone che amo, staccare dal lavoro, staccare dai social.
Ho bisogno di riscoprire il lato umano ed empatico dei rapporti umani, di stare seduta a tavola con zii e cuginetti, di portare Marcellino a correre sulla neve, di vivere il Natale come un atto d’amore.
Scrollo i social in questi giorni, mi sembrano una nenia malvagia che si ripete sempre identica, incatenandoci in un incantesimo di rassegnazione e dolore: il ponte dell’Immacolata è sempre un’occasione per vedere vacanze supplied by, alberi addobbati da imprese che si occupano di eventi, cibo ovunque, anche il calendario dell’Avvento è diventato un simbolo dell’iperconsumo. Dov’è l’umanità, in tutto questo? Dove sono l’intimità di una casa, la luce soffusa, le finestre che che riflettono le lucine colorate, mentre dal forno si diffonde ovunque l’odore di cannella? Mi sembra di vivere sempre di più all’interno di un processo deumanizzante dove anche le cose più belle diventano un pretesto per stabilire un privilegio.
Ho un albero da 30cm da 5€, era quello che mi potevo permettere quando ho iniziato a vivere da sola, è sulla mensola sotto la finestra e il primo Natale con Luca ci siamo regalati delle ciabatte e un disco. Ero felice. Vi auguro di non farvi avvolgere dalla necessità di replicare nella vostra vita questa follia capitalistica dove si diventa dipendenti dagli oggetti, dove l’autodeterminazione passa dalla necessità dell’accumulo, dal consumo, dall’esaltazione di esperienze sempre nuove, di alberi sempre più grandi, di case sempre più illuminate mentre, allo stesso tempo, ci si consuma annullandosi dalla necessità di mostrare ciò che si ha per vedersi riconosciuto uno status social(e).
Siamo molto di più di questo. Cercate di capire se volete davvero qualcosa o se qualcuno vi induce ad avere qualcosa di cui non avete bisogno. Perché tutto ciò che ci serve è la capacità di perdonare e amare chi ci ha dato la vita.
Ok, se ora sei in lacrime e ti stai chiedendo come offrirmi un caffè virtuale, la risposta è che puoi farlo qui: https://ko-fi.com/serenadoe
Per i torinesi: il 15 dicembre ci troviamo alle 19 a La Libreria del Golem per parlare di bell hooks, così ci salutiamo anche prima delle feste :)
Ti dico solo che ho pianto tanto ed ho dovuto rileggere 4 volte perchè non vedevo bene con le lacrime.
Si, sono commossa. Spero in tempi migliori per poter lasciare un contributo.
Ti mando un abbraccio, però.