Qualche giorno fa ho pubblicato su Instagram un post su Sora, il nuovo strumento di OpenAI che trasforma un testo in video o immagini. Parlavo di come questa tecnologia stia diventando un dispositivo di dominio, una nuova forma di controllo sui nostri corpi, sulle nostre possibilità di rappresentazione.
La piattaforma lo ha rimosso. Non so nemmeno perché e, forse, nemmeno mi interessa così tanto.
Ma oggi non parlerò di questo.
Il regime algoritmico a cui ci inginocchiamo costantemente mi inviterebbe — con la cortesia spietata della sua logica — a parlare della morte di Papa Francesco.
A infilarmi in quel mix di contenuti che inondano i nostri feed: l’account di ricette che pubblica il suo piatto preferito, la bagna cauda; lo stilista che condivide gli outfit più iconici; l’attivista che crea un carosello con le sue dichiarazioni anti-abortiste.
Ognuno con la propria lente identitaria, intento a reinterpretare il lutto nel linguaggio della propria nicchia, nella speranza di ottenere un posto migliore nella classifica silenziosa dell’attenzione.
Ma non parlerò nemmeno di questo.
Voglio partire da una frase letta in una recensione su Goodreads sul mio libro, che da giorni mi gira in testa. Una frase semplice, che però rimane lì, come un peso che non riesco a spostare:
“Serviva pubblicarlo almeno un anno fa.”
Il libro sta andando bene. Ne sono grata in modo profondo, quasi imbarazzato: è stato totalmente inaspettato, per me, vedere centinaia di persone alle prime presentazioni, sapere che decine di eventi mi aspettano, e che — nonostante tutto — è da più di un mese tra le prime posizioni in classifica.
L’accoglienza della stampa e di alcuni studiosi che considero riferimenti altissimi per i miei studi dovrebbe rendermi entusiasta — e lo sono.
Sono profondamente grata anche alle persone “famose” che mi stimano e che mi hanno offerto il loro spazio per far conoscere questo testo a più persone possibile.
Mi sento estremamente privilegiata per tutto questo.
Eppure, quella frase ha riaperto una ferita che conosco fin troppo bene. Una ferita che pulsa sotto la pelle di ogni cosa che faccio, da tutta la vita: la sensazione di essere sempre in ritardo.
Mi sento costantemente in affanno, come se stessi partecipando a una corsa sapendo che le mie gambe sono lastre di ghiaccio pronte a rompersi da un momento all’altro. Una sensazione che non è solo mia. La riconosco negli occhi di chi mi sta accanto, nei messaggi che ricevo a notte fonda, nei racconti degli amici che vedo raramente — anche se vivono nel quartiere accanto.
Perché siamo sempre tutti stremati, e per vederci dobbiamo organizzarci con il calendario alla mano, alla ricerca di quell’unica sera, ogni tot settimane, in cui possiamo sederci a un tavolo e stare insieme senza dover pensare a nulla.
La provate anche voi, vero?
La sentite quella morsa nel petto, quando vi mettete a letto dopo l’ennesima giornata sprecata per un lavoro di merda, cercando di ritagliare nella notte uno spazio che vi restituisca almeno un frammento di vita?
La chiamano “procrastinazione del sonno per rivalsa”.
Di solito la passiamo scrollando il telefono o guardando passivamente contenuti da uno schermo, che sia Netflix, YouTube o qualsiasi altra piattaforma.
La testa diventa pesante, le palpebre si abbassano, ma lottiamo contro quella stanchezza come se fosse un nemico.
Perché in fondo, anche se non è vero, vogliamo poter dire a noi stessi che almeno questa sera abbiamo fatto qualcosa per noi. Perché il capitalismo digitale non si limita a occupare il nostro spazio pubblico: colonizza il nostro tempo interiore, le nostre ore di riposo e ci fa sentire sotto pressione anche quando non abbiamo più niente da dare.
E ci lascia addosso un senso di inadeguatezza cronica, come se fossimo software da aggiornare di continuo, sempre un passo indietro rispetto a chi tiene tra le dita la versione premium di sé e ce lo ricorda, costantemente.
A volte mi sento febbricitante dalla stanchezza, mentre cerco di stare in equilibrio su una corda tesa tra la precarietà e le memorie profonde della povertà economica e sociale da cui vengo. Non ho motivo di negarlo: soffro di ansia, per molto tempo le mie mani, le mie gambe o le mie braccia si paralizzavano dal nulla e ho dovuto imparare a gestire anche questo. Perché succedeva? I risultati dei test dicono perché ho costantemente paura di sbagliare.
E mi chiedo: se avessi più tempo? Se potessi scrivere senza la pressione di dover continuare a fare tutto il resto? Se la scrittura fosse la mia unica attività, e non un atto di resistenza tra mille lavori e mille interruzioni — mi sentirei ancora “in ritardo”?
Eppure sento che, anche in quel caso, qualcosa mi terrebbe comunque indietro, bloccandomi all’altezza delle spalle.
Una voce interna, bassa ma costante, che mi ripete che non non sono mai abbastanza, che non ho abbastanza titoli o abbastanza grazia quando mi muovo.
Me ne accorgo quando frequento certi spazi: quando insegno, e arrivo a lezione strisciando lungo le pareti, sapendo di essere vestita troppo male per un’accademia in cui uno degli indirizzi principali è fashion design.
Quando mi invitano a parlare e accanto a me ci sono persone che si conoscono tutte tra loro, e io penso che sono cresciuta in un paesino di 5.000 abitanti e fino a dodici anni fa pulivo i bagni.
E forse non ci devo stare lì, con quelle mie spalle basse e l’imbarazzo che provo quando mi chiedono “un posto buono dove andare a mangiare”.
È questo il paradosso delle ferite di classe: quando vieni da un certo contesto, un contesto di continua privazione, anche il successo può sembrarti una colpa.
Mi muovo nel mondo piegata da un senso sottile di ipocrisia, come se avessi infranto una regola tacita salendo gradini che non erano destinati a me.
E allora anche il tempo diventa un’illusione: non c’è mai “abbastanza tempo” per chi si porta addosso l’urgenza di giustificare il proprio posto nel mondo.
Scrivere, per me, non è mai stato un lavoro.
È sempre stato un modo per rimettere insieme i pezzi, per comprendere il mondo che mi circondava.
Ho iniziato da bambina, collezionando parole su foglietti che poi coloravo e raccoglievo in una scatola di cartone.
È successo anche con il libro. avevo bisogno di capire, di razionalizzare. Quando ho finito di scriverlo, ho pianto profondamente.
Lacrime di felicità, ma anche di liberazione da un peso enorme. Non ne potevo più di passare le notti sveglia.
Mi ricordo di aver mostrato la prima bozza al mio compagno e a una mia amica: era novembre 2021.
Ho passato altri tre anni e mezzo a raccogliere dati, leggere studi, analizzare video. Io non volevo solo descrivere questi fenomeni, volevo comprenderli profondamente per poterli fermare.
Ho consegnato quasi 400 pagine estremamente tecniche, per poi trascorrere altri quattro mesi a semplificarle, a renderle accessibili.
Volevo che il libro fosse un manifesto non solo mio, ma anche di chi non ha voce — che lo potesse capire anche mia madre e imparare a difendersi.
Eppure, anche quando è andato in stampa, non mi sentivo abbastanza.
Lo mandavo ad amici giornalisti, ricercatori in semiotica o sociologia, mettendo subito le mani avanti: “Perdonami se magari non sono stata precisa, lo so che potevo fare di più.”
Non posso spiegarvi cosa ho provato quando ho letto questa recensione su Treccani e le meravigliose parole che sono state spese per il mio lavoro.
O quando qualcuno mi scrive per dirmi che non sapeva come esprimere il proprio disagio interiore, ma ora sì.
Sono in ritardo di almeno un anno? Forse è vero.
Un anno in cui ho dovuto lottare con demoni che mi schiacciavano contro il pavimento, mentre usavo tutta la mia forza per fare cose semplici. Tipo ricordarmi come si mangia.
Ma so anche che molti temi che ho tracciato nel libro, non erano mai stati analizzati prima. E che ogni volta che negli ultimi anni ho portato alla luce un nuovo fenomeno, poi lo vedevo riapparire altrove — smembrato, riciclato, depotenziato — da chi ha il tempo di produrre gli stramaledetti contenuti, unico strumento di legittimazione ormai riconosciuto in un mondo in cui chiamiamo “divulgatori” persone che leggono i paper degli altri e ci fanno i video.
Contenuti confezionati in fretta, con grafiche accattivanti, infografiche, ganci per attirare l’attenzione ben calibrati.
Perché in un mondo che va così veloce, non si premia chi scava. Si premia chi semplifica, chi arriva per secondo, ma in formato verticale. Pronto a offrirci una dieta che sfama la nostra voglia di sapere.
Ho sorriso con i miei amici, qualche giorno fa, vedendo reel con persone che fanno le faccette argute, usando intere frasi prese dal mio libro. Senza citazioni, ovviamente.
E se volete sapere la verità, io ho sbagliato pure a pubblicare il video di lancio del libro, perché quel giorno ero troppo stanca, dopo l’ennesima sveglia alle 5:40.
È stata un’enorme fatica anche solo realizzarlo, con i miei amici che lo hanno montato e musicato esausti quanto me, di notte, dopo il lavoro.
E vivo ancora oggi con l’idea che avrei dovuto allenarmi meglio: a rispondere alle domande, a guardare in camera, a essere più breve, più dritta al punto.
A volte dissocio, soprattutto nei giorni in cui passo ore saltando da una call a un’intervista.
Non ho condiviso tutto sui social — lo sapete, non mi va — ma alla radio ne ho fatte moltissime.
Se ci fate caso, in ogni evento, programma radio, video divulgativo in cui mi hanno coinvolta nell’ultimo mese… sono vestita uguale.
Ho comprato un solo “completo bello”, come direbbe mia madre.
Quello da tirare fuori nelle occasioni speciali — ma che ormai è diventato una specie di mantello. Una giacca blazer così larga che mi fa sentire protetta, distante, al sicuro.
La porto alla lavanderia a gettoni quando ho due presentazioni di fila, sperando che asciughi in tempo, mentre lavoro col pc sulle gambe, rilassata dall’odore del detersivo. Ho sistemato anche la vernice rovinata degli stivali, colorandola con un pennarello, con la paura che si notasse.
Non voglio vivere in un mondo che mi costringe a correre fino allo sfinimento.
Forse continuerò a tracciare fenomeni e a pubblicare libri troppo in ritardo rispetto ai trend. Ma se le mie parole sono servite anche solo a una persona, allora forse sono arrivata esattamente quando dovevo arrivare.
Con le scarpe consumate, la giacca larga, le parole giuste.
E non dico tutto questo per ricevere una pacca sulla spalla.
Lo dico perché so che chi mi guarda dall’altra parte dello schermo spesso mi vede più determinata, più forte di quanto io mi senta davvero.
Qualcuno magari mi invidia. E io non voglio alimentare tutto questo.
Non voglio che si veda solo il risultato finale, costruito, mediato.
Voglio ricordare, a chiunque, sempre, che partire da una strada in salita rende le cose incredibilmente più difficili.
E che spero che questa newsletter sia un abbraccio che vi sostiene mentre andate a letto, impostando l’ennesima sveglia per domani.
Vi ringrazio per tutto il sostegno che mi avete dato.
Se ancora non avete il libro, lo trovate qui e in tutte le librerie.
Grazie Serena, preordinai il tuo libro nella piccola libreria della mia città, andai a prenderlo qualche giorno dopo a corsa, il libro è sempre lì sul tavolo, la sveglia anche stasera è impostata alle 4:30, riuscirò a trovare il tempo di leggerlo? Si, ma intanto, il senso di colpa che sento per non essere riuscita neanche ad iniziarlo lo hai attenuato te con queste tue parole appena arrivate per mail, sdraiata, con gli occhi che si chiudono. È possibile arrivare in ritardo anche quando ci si mette tutta. Va bene così. Grazie ancora!
L' ho acquistato a Taranto con le mie figlie .Arianna,13 anni,mi ha chiesto se può leggerlo dopo aver finito il suo.Erica,10 anni,mi ha detto:"È il libro di Serena la tua amica che abbiamo conosciuto a Torino?".Sere non puoi capire l' orgoglio anche solo immaginare di poter essere tua amica.Non è vero che si arriva tardi.Ognuno arriva quando è il suo momento giusto non quello degli altri.Doveva arrivare ora! perché hai percorso una lunga strada fatta di incontri,salite e fatica.Tu mi hai insegnato che "Se vuoi puoi" è una immensa cazzata.
Stai cambiando un pezzettino di sto mondaccio.Grazie 💜