Se c’è una cosa che non cambia mai, fin da quando ero bambina, è che quando sto molto male non posso fare a meno di scrivere. Scrivo per sfogarmi, per cercare di districare quella matassa che mi sale dalla gola e lega ogni organo fino allo stomaco. Quando scrivo, è come se riuscissi a prenderla tra le mani, quella massa aggrovigliata, e farla uscire piano, filo dopo filo, dalla bocca.
In questi mesi sono rimasta schiacciata, di nuovo, dall’idea che dovessi impegnarmi di più. Che dovessi farlo per aiutare la mia famiglia, per costruirmi una vita migliore. Ho accumulato lavori: agenzie, insegnamento, presentazioni del libro in tutta Italia, scrittura, palestra, lezioni per il cane, pulire casa, ampliare il mio “network” anche se la testa era sempre altrove, tra corse in ospedale e svenimenti improvvisi.
A volte penso che la tensione che mi porto dentro venga dal fatto che non riesco più a decifrare quello che mi circonda. O, forse, perché lo decifro fin troppo bene.
L’anno scorso mi è stato diagnosticato un disturbo del comportamento alimentare. Quando sento che non ho il controllo di ciò che mi circonda, quando la mia vita mi sembra troppo vuota o senza via d’uscita, il mio rifugio diventa riempire il corpo di cibo. Mi potreste trovare, in qualsiasi momento, seduta nella piazzetta dietro casa, tra le panchine occupate dal solito gruppo di anziani, a ingurgitare cibo su cibo: patatine, pizzette, cioccolato, nocciole, gelato. Uno dopo l’altro, a volte insieme. Piangendo. Soffocandomi, mentre le mani spingono giù per la gola tutto ciò che possono e i vestiti si riempiono di briciole. Non oso immaginare il dolore che prova il mio compagno ogni volta che gli scrivo “ho bingiato”. Lui, che è arrivato al punto di prepararmi la cena tagliando i cibi in piccoli pezzi prima di portarmi il piatto, per cercare di limitare le abbuffate che impongo al mio corpo. Poi è arrivata anche la diagnosi di sindrome da stress post-traumatico. E, pochi mesi fa, quella di depressione.
Per riuscire a vivere senza sentire il corpo trasformarsi in cristallo - sul punto di frantumarsi a ogni respiro - ho iniziato una terapia farmacologica. Antidepressivi, ansiolitici. Sono seguita da uno psichiatra, una nutrizionista e un personal trainer che mi aiuta a riprendere contatto con il corpo. A un certo punto nemmeno le mani funzionavano più. Spendevo quasi tutti i miei soldi per farmi preparare i pranzi dalla gastronomia accanto casa, perché solo l’idea di tagliare due zucchine mi faceva girare la testa. Come se avessi dimenticato che cos’è il cibo, come toccarlo, come renderlo nutrimento.
Ogni volta che le pastiglie scivolano giù penso a quanto sto meglio, o meglio, a come grazie ai farmaci riesco ad essere performante. E allo stesso tempo so che anche questo è un segno del tempo in cui viviamo: una forma raffinata di controllo sociale. Sto male perché non ho nemmeno il tempo di chiedermi chi sono. Penso a tutto, tranne a me, mentre continuo a produrre, a migliorarmi, a dimostrare di valere, mentre il conto in banca sale e scende nei primi dieci giorni del mese e mi affido al budget su Satispay per pagare la spesa. Mentre mi chiedo se riuscirò mai a vivere con il mio compagno, guardo i pochi soldi messi da parte e penso a mia madre, ai suoi quadernini pieni di numeri col segno meno davanti. E allora mi domando cosa succederebbe se arrivasse l’ennesima spesa imprevista, o se - da freelance- il lavoro si fermasse all’improvviso. E allora quei soldi nella mia testa è come se non esistessero perché sono troppo effimeri.
Non credo che questa storia sia solo la mia. Credo che racconti un pezzo di una generazione spezzata, tradita, dimenticata. Ho scelto di non allontanarmi dalla città perché qui “ho gli amici” o “la vita sociale”: ma a che serve restare tra pareti che s’infiammano d’estate, se tutte le persone che amo vivono la mia stessa condizione?
Con alcuni amici abbiamo condiviso un file Excel per incastrare le date in cui possiamo vederci.
Ogni volta che ci incontriamo finiamo col parlare solo di quanto siamo stanchi. Di come ogni giornata termini sul divano, cercando di spegnere il cervello. Non solo non possiamo comprare casa, non possiamo nemmeno vivere la nostra vita sociale in modo dignitoso. Uscire a bere qualcosa, andare al cinema, a un concerto: tutto richiede soldi, energia, tempo che non abbiamo.
Soffro d’insonnia, ma alle cinque del mattino devo essere sveglia per insegnare a studenti che arrivano in aula con borsette di Prada e progetti fatti con ChatGPT, sbagliando il nome di uno dei più importanti artisti italiani contemporanei, giustificandosi con l’aria di chi tanto sa già che a settembre troverà lavoro. E studiano design.
Ho visto due concerti grossi nell’ultimo mese. Quei concerti dovevano essere il nostro viaggio di nozze. Nozze che abbiamo rimandato perché quest’anno, economicamente, è stato un disastro. E dobbiamo pure sentire chi ci dice: “Ma dai, per sposarsi bastano due firme”. Sì. Ma perché noi non possiamo avere una festa con gli amici? Perché dobbiamo sempre accontentarci? Perché dobbiamo sempre rinunciare?
Quando ho iniziato a vivere Torino, la mia casa era questa:
Un bilocale minuscolo. Mi era stato promesso che l’avrei trovato verniciato a nuovo, con un fornello funzionante e un pavimento rifatto. In realtà, mi sono ritrovata con il gas piombato, la vernice data attorno ai mobili - lasciando chiazze e aloni ovunque - e in corridoio avevano persino pitturato sopra la carta da parati, creando un muro gonfio, pieno di bolle, una specie di creatura viva che mi sembrava volesse inghiottirmi. Il letto matrimoniale erano in realtà due singoli di altezze diverse, tenuti insieme con dello spago. Quando avevo visitato la casa non mi ero nemmeno accorta che in bagno mancava il bidet. Forse era l’unica casa in Italia senza.
Ci ho vissuto tanti anni. Non ebbi nemmeno la forza di lamentarmi con la padrona di casa: avevo poco più di vent’anni, l’affitto era bassissimo e il mio primo stipendio era di 800 euro al mese, più i buoni pasto.
Eppure, ero felice. Me la ricordo la prima cena su quel piccolo tavolo con una tovaglia di carta e delle lasagne surgelate, cotte nel microonde, perché per settimane non ho avuto il fornello funzionante. Felice come la ragazza nella foto qui sotto.
Credo sia rincuorante trovare storie come questa sui social - basta che guardiate i numeri che ha fatto questo contenuto - mentre intorno a noi le sue coetanee ventenni tiktoker comprano quadrilocali da oltre 100 mq a Milano, annunciandolo con faccette e balletti, sostenute dalla retorica del “ce l’ho fatta da sola” rilanciata su LinkedIn da post come questo come se fosse un caso studio di successo.
Parlare delle TikToker che comprano casa come se fossero il simbolo di un nuovo merito è una forma sofisticata di mistificazione. Non stiamo assistendo a uno scontro di culture, ma all’ennesima messa in scena della realizzazione individuale come alibi ideologico. Il successo sui social non è il crollo del “vecchio mondo” incentrato sul sacrificio, come l’autore di questo post vuole farci credere, ma il suo aggiornamento: visibilità, bellezza, accesso a capitale simbolico e reti sociali sono semplicemente dei nuovi filtri classisti. Ed è perfettamente comprensibile che faccia male vedere saloni con parquet e ringhiere in ferro battuto trasformati in palcoscenici da ventenni sorridenti, mentre milioni di giovani- proprio in quella città - vivono in piena emergenza abitativa. Fa male perché non è solo una questione di invidia, ma di dissonanza. Una frattura tra ciò che ci viene mostrato come normale e desiderabile, e ciò che è concretamente accessibile alla maggior parte di noi. In quel balletto non c’è solo leggerezza: c’è la cancellazione sistematica del contesto. Non si parla di affitti insostenibili, di stanze condivise con sconosciuti, di contratti a tempo, di garanzie impossibili da ottenere. Non si parla di come quella casa sia diventata sempre più un premio per pochi e non un diritto per tutti.
L’invidia non è un sentimento sbagliato: è il sintomo psichico di una società che ha distrutto ogni promessa collettiva, trasformando la possibilità in monopolio per chi proviene già da una classe sociale agiata. L’invidia è solo il nome sbagliato che diamo al lutto per un futuro che ci è stato negato.
A chi osserva con disagio non serve “una lezione di vita”, ma una critica sistemica. Una nuova visione politica che ci abbracci collettivamente. L’invidia non è ignoranza né cattiveria: è il sintomo emotivo di un collasso. Quello dello Stato sociale, della redistribuzione, dell’idea stessa di giustizia collettiva. Abbiamo lasciato che l’ascensore sociale si arrugginisse, mentre i piani alti diventavano proprietà privata nelle mani di pochi. E intanto applaudiamo chi monetizza la propria immagine o affitta un’intera città per un matrimonio, come se queste eccezioni fossero la prova che “tutto è ancora possibile”, che se ce l’hanno fatta è solo merito loro, e a noi non resta che migliorarci. L’immagine più evocativa del successo oggi è sempre la stessa: chi si è fatto da sé. Dal garage in California alla cameretta ai Parioli. Il capitalismo ha imparato a mascherare il potere con l’estetica del popolo, rendendo i nuovi padroni familiari, vicini, innocui. Le TikToker servono a questo: a mantenere saldo il potere dei tecnocrati offrendo l’illusione di un piano di mezzo tra lo scantinato e l’attico. Lo vedi? Se non sali è colpa tua. Le possibilità le hanno tutti. È questo il grande inganno della nostra epoca - e l’ho raccontato nel dettaglio nel mio libro: una costruzione di immaginari tramite algoritmi che, è sempre bene ricordarlo, non sono entità astratte che si espandono come virus sotto le nostre dita ma sono scritti da qualcuno, le regole della visibilità le ha dettate qualcuno. E noi siamo solo i topi vittime di un esperimento sociale che ci vuole sempre più incapaci di criticare il sistema.
Ora che ci ritroviamo a fare i conti con la fame di futuro, ci accorgiamo che a mancarci non è la voglia di ballare, ma il pavimento sotto i piedi.
Qualche settimana fa, per un progetto, mi sono messa a studiare la storia dei Dopolavoro. Erano spazi pubblici nati nel Novecento, dove i lavoratori potevano incontrarsi, svagarsi, fare sport, cultura, comunità. Ho passato ore a guardare quelle foto: corpi stanchi, ma insieme, felici. Spazi collettivi, non perfetti, ma accessibili per i singoli e le famiglie. E guardando, mi è arrivata addosso una consapevolezza semplice e dolorosa: la nostra vita è peggiorata da quando abbiamo smesso di condividere tempo e spazio con persone della nostra stessa classe sociale perché diventa impossibile confrontarsi e rivendicare ciò che ci spetta, insieme. Oggi siamo separati, dispersi, in competizione costante - e spesso senza nemmeno sapere con chi.
Mi rendo conto che molto del disagio che ho provato negli ultimi mesi nasce proprio da qui: dalla fatica di dover parlare con persone che vivono nel privilegio senza accorgersene. E dalla consolazione che trovo, invece, nel confronto con chi conosce le mie stesse fragilità. Ho dovuto ascoltare amici raccontare, con totale naturalezza, di genitori che regalano 250.000 euro come “mancia di matrimonio”. Ho visto persone con casa e auto di proprietà, che vanno in vacanza e non rinunciano a nulla, lamentarsi della loro precarietà. Ho risposto ironicamente a una story di un conoscente - sempre in giro per concerti, festival, locali - chiedendogli di insegnarmi ad avere la sua forza e i suoi soldi per stare sempre in giro. Perché guardandolo, mi sono sentita in difetto io, come se sbagliassi qualcosa nella gestione delle mie finanze dato che, anche lui, fa parte della schiera di persone che hanno un “lavoro modesto”. Mi ha risposto seccato, buttandola sul fatto che “ci vuole un bel budget per andare in questo locale effettivamente”, come se l’avesse infastidito, come se non avesse capito che di certo non mi stavo riferendo ai concerti da 5€ ma a quelli molto più grandi e alla forza psicofisica che ci vuole per stare sempre in giro.
E poi c’è il “preso bene radicale”. Quello che scrive testi pieni di coscienza politica, che si scaglia contro il potere delle piattaforme mentre le usa come palcoscenico personale. Che non lavora per scelta e ti spiega che “non siamo fatti per il multitasking come i PC” e che “la produttività va rifiutata”. Lo dice mentre annuncia, con tono grave, che non farà più le dirette del mattino perché scrivere lo stanca. La sua è una comfort zone spacciata per rivoluzione. Un posizionamento come un altro. Combatte il culto della produttività, ma lo performa in modo ancora più tossico: travestito da cura di sé e senso critico.
Vorrei dirgli: prova a scrivere un libro dopo dodici ore di lavoro vero. Prova a costruire un pensiero dopo decine di mail, le attese per i mezzi, le telefonate del commercialista, i pianti in bagno. E invece no: riesce pure a pubblicare, a prendersi la scena, senza che nessuno gli chieda come cazzo campa.
Ma è questo il punto: ci hanno tolto la possibilità di riconoscerci tra simili. E ora ci parlano solo attraverso lenti sfalsate, in cui la sofferenza è glamour, e la coscienza politica è estetica di lusso. La solitudine sociale, oggi, è anche questo: sapere esattamente da dove vieni, e non riuscire più a trovare un posto in cui non sentirti fuori luogo.
Lo so che questa parte suona come una guerra tra poveri. Ma a un certo punto, la barricata esiste. O sei da una parte o dall’altra.
Vivo un senso di impotenza costante quando vedo mia madre uscire alle 6.30 per andare a lavorare sotto il sole, mentre i genitori dei miei amici - alla sua stessa età -sono in pensione da anni e passano le giornate in spiaggia. Ripenso alla madre del mio ex, che un giorno disse che se a quasi 70 anni la mia mamma era costretta ancora a lavorare, era solo perché “non si era impegnata abbastanza”. Lei, con un lavoro da impiegata part-time e una casa enorme ereditata dai suoceri. Mio padre, invece, è cresciuto in orfanotrofio in un paesino piccolissimo. Si vergognava persino di respirare. Si teneva sempre in disparte, la testa bassa, invisibile, le mani in tasca. Come se il mondo gli avesse insegnato fin da subito che il suo dolore non contava.
Mi sento male pensando alla mia amica Francesca, che ha ricominciato a lavorare una settimana dopo il parto. Al suo compagno, Alessandro, che viaggia giorno e notte per presentare il suo libro, che parla proprio di coscienza di classe, mentre cerca di mantenere il suo lavoro. Ho letto l’intervista di un autore qualche giorno fa, diceva che ha venduto migliaia di copie perché negli ultimi mesi ha fatto 180 presentazioni. Grazie al cazzo, deve essere comodo poter pensare solo alle proprie parole e vivere di quello. Francesca e Alessandro, invece, sono stati costretti a lasciare la città per garantire ai loro figli una vita un minimo più dignitosa. E con “dignitosa” non intendo scuole internazionali o giardini privati, intendo potersi permettere, ogni tanto, una pizza seduti al tavolo di un ristorante mentre influencer travestiti da famiglie da centro sociale fanno marchette a pagamento persino sul parcheggio dell’aeroporto e sul nastro adesivo. E così anche la genitorialità una sceneggiatura da brandizzare.
Ma in questo dolore trovo anche una forza. La forza per immaginare un mondo migliore. Per me, per loro, per quei bambini che sento più vicini a me di qualunque altra persona, ricordando la mia infanzia e tutto ciò che avrei meritato. E che spero arriverà a loro.
Quella che chiamano invidia è solo rabbia. E la rabbia, se non la anestetizzi, brucia. Voglio vederlo bruciare questo mondo, per me, per voi, per i muratori qui accanto che lavorano lamiere incandescenti sotto il sole. Per i rider che consegnano cibo a chi considera normale ricevere un pasto caldo senza alzarsi dal divano. Per i miei studenti con la borsa di studio che lavorano al McDrive di notte e vengono in aula il giorno dopo con la schiena piegata.
Ringrazio chi, come Francesca, racconta ogni giorno cosa significa sopravvivere. Perché se vogliono isolarci, se ci vogliono muti e slegati, allora parlare è già un gesto politico. Piegare le piattaforme al nostro dolore è un modo per non perdere il contatto con la realtà. Per ricordarci che non siamo soli. E che, se abbiamo perso quasi tutto, non ci toglieranno anche la voce.
Lo so, non è un pensiero lineare, non è una conclusione ordinata. Ma chi vive in bilico tra mille lavori, corpi stanchi e sogni rimandati, non ha il privilegio della chiarezza. Abbiamo ferite che non fanno rumore e desideri che non trovano spazio tra i nostri pensieri.
Non voglio più sentirmi in colpa per essere stanca. Mi dispiace da morire aver annullato alcune presentazioni del libro ma il mio corpo mi ha chiesto di fermarmi. Voglio che questa stanchezza diventi linguaggio. Che la solitudine si trasformi in legame. Che la nostra fragilità non sia una colpa, ma una crepa da cui far passare luce.
Ci hanno insegnato a stare zitti, a non disturbare, a essere grati per il solo fatto di avere un lavoro e un tetto sopra la testa. Ma non dobbiamo nulla a nessuno. Dobbiamo essere presenti. Infastidire. Scardinare le ingiustizie dopo averle nominate, una a una. E se il mondo che ci è toccato non ci lascia spazio, allora lo scardineremo con le unghie. Perché non siamo soli. E perché ogni volta che ci riconosciamo, anche solo in una storia, nasce un’altra possibilità.
Una possibilità che assomiglia moltissimo a una rivoluzione.
Piangendo ogni mia lacrima. Grazie per trovare la forza di scrivere come scrivi, di pensare come pensi, di esserci come ci sei.
L’hai scritto con il sangue. Le tue parole,preziose, rappresentano l’urlo dell’umanità viva, contrapposizione al brandizzare se stessi, al privarsi di anima per lucro.
Per sempre grata.