“Chiudiamo dentro scatole
Pezzi di vita andati
Restano stanze vuote”
Qualche mese fa mia nonna è morta.
Il dolore per la sua mancanza è un peso che non scompare mai del tutto ma si adatta a ogni mio respiro, come se l’aria fosse intrisa della sua assenza, uno spillo che danza sfiorandomi il petto, ticchettando all’altezza del cuore, facendogli perdere il ritmo, ritardandolo un po’ a ogni battito. Un promemoria perpetuo di una tristezza irrisolta, che vorrei esplodesse attraverso i miei occhi ma che invece rimane bloccata lì, come un pugno nella gola.
L’ultima volta che l’ho vista era sdraiata nel suo letto ma non riconosceva la sua stanza. “Portami a casa” - mi diceva - “voglio solo andare a casa mia”. Ho pregato per mesi che morisse, dimenticando ogni volta che non credo in nessun Dio, e che certo non avrei potuto trovare la fede nel vedere la persona più buona e pura del mondo contorcersi urlando dal dolore, diventando sempre più piccola, perdendo la sua forma, un corpo diventato fragile come un foglia che perde la sua linfa vitale e si accartoccia a terra.
So che avevo scritto che avrei cercato di evitare di rendermi vulnerabile parlando della mia vita e non voglio finire nel calderone di quella “pornografia del dolore” che tanto detesto e tante volte ho denunciato ma la sua morte mi ha aiutata a razionalizzare, ancora un volta, quanto le differenze di classe siano intrinsecamente parte del nostro quotidiano e come il culto produttivistico abbracci ogni aspetto delle nostre vite, e della nostra morte, specie quando sei povero.
Quando penso a un ricordo felice, la mia mente torna sempre ai pranzi della domenica a casa dei nonni. Rivedo le pentole sul fuoco o appoggiate sulla stufa a legna (che buona, quella polenta), il nonno e la nonna attorno al tavolo infarinato a preparare gli gnocchi, lei impastava con le mani esperte e il nonno, con precisione, li rigava uno a uno; sento ancora il calore delle dita bruciate quando stavo accanto a lei mentre friggeva i fiori di zucca, rubando quelli appena usciti dalla padella piena d’olio, e la sua voce dolce che mi chiamava Nini o Nani. Ripenso a quando dovevamo recuperare le lunghe tavole di legno da fuori, appoggiate sulle scale, per allungare il tavolo e riuscire a stare tutti insieme: diciotto persone attorno a un tavolo lungo poco più di due metri, alcuni seduti su sedie traballanti recuperate dalla cucina, il più sfortunato doveva stare sul poggiapiedi del divano. E poi c’erano le litigate innocenti con mia cugina su chi dovesse tenere il fiocco del pacchetto dei pasticcini, ogni singola domenica. Eravamo felici, in realtà. Ci bastava così poco. Ora, quel senso di unione, di protezione, di famiglia, mi manca terribilmente. Lo cerco negli amici ma è come se mi mancasse un senso di “casa” che non riesco a trovare altrove.
A un certo punto il salotto di nonna ha iniziato a svuotarsi: c’è chi si è sposato e ha costruito la propria famiglia altrove, chi si è trasferito lontano, chi si è allontanato e non è più tornato, per incomprensioni o litigi che non si sono più sanati. Mi chiedo quanto dolore abbia provato quella donna nel vedere sedie sempre più vuote e a vivere silenzi sempre più impenetrabili. Era ormai completamente sola. A lungo ho guardato con tristezza la sedia vuota di mio nonno, e poi quella di mio padre. E quando mia nonna non è stata più in grado di preparare da mangiare, di lavorare e quando la sua mente ha cominciato a vacillare, quando - in un certo senso - il suo valore produttivistico è venuto a mancare, ho percepito una sorta di allontanamento nei suoi confronti, giustificato spesso con un “bisogna lasciarla tranquilla” ma che mi è sembrato, in realtà, un modo per pulirsi la coscienza da parte di chi aveva sempre approfittato della sua gentilezza. Era come se, non avendo più un "ruolo" da svolgere, mia nonna fosse diventata un peso, una “fatica” da dover gestire. E che questa sorte sia toccata proprio a lei, una persona che avrebbe preferito diventare invisibile pur di non disturbare, ma che per tutta la vita aveva dato tutto di sé agli altri, l’ho trovato ferocemente crudele.
Ho sempre vissuto con una profonda nostalgia la mia forzata fuga da quel piccolo paese sui monti, soprattutto perché avevo paura di non poter stare accanto ai miei genitori e ai miei nonni mentre invecchiavano. Dovevo lavorare, dovevo essere anch’io, in un certo senso, “produttiva”, e potevo farlo solo cercando la mia “casa” altrove. Penso ai mesi trascorsi lontano dalla mia famiglia durante la pandemia, con la paura costante di non rivedere mai più mia nonna e mia madre. E quando finalmente sono riuscita a tornare da loro, la connessione internet non era abbastanza veloce per consentirmi di lavorare da lì, e così mi è stato chiesto di rientrare, per poter continuare a soddisfare gli “standard” lavorativi. Durante il lockdown, avevamo lavorato 12-13 ore al giorno per produrre contenuti con cui intrattenere le persone chiuse in casa. Eppure, non mi era stato concesso di restare più di 24 ore accanto a loro. Mi ricordo mia nonna entrare in sala mentre singhiozzavo sul divano, baciarmi in fronte e dirmi “Nani, non si piange per il lavoro”. Avevi ragione, nonna.
Da allora, ho iniziato ad andare da loro sempre più di rado. C’era sempre qualcosa di urgente, una scadenza, un progetto, e così, per quattro anni, ho visto mia madre e mia nonna non più di quattro volte l’anno. So che questa è una condizione comune per tanti, so che c’è chi può vedere la propria famiglia anche meno frequentemente, e che ci sono odori, sapori, abbracci che affiorano alla mente nei momenti di solitudine. Ma io non riesco a dimenticare i loro volti, sempre più stanchi, ogni volta che le rivedevo. Come un crudele time-lapse, ogni visita lasciava su di loro nuovi segni, nuove rughe, che sono diventati solchi dentro al mio cuore. Un senso di colpa che non potrà mai affievolirsi.
E più o meno un anno fa, nel tempo trascorso tra una visita e l’altra, mia nonna è semplicemente scomparsa dentro se stessa e il volto di mia madre è diventato irriconoscibile per la stanchezza. Non so spiegarvi la sensazione che ho provato nel non riconoscerle più. Eppure, erano passati solo 4 mesi. 120 giorni. Possibile che tutto possa cambiare così profondamente in così poco tempo? O forse non mi ero accorta di quello che stava accadendo? Ogni volta che arrivavo lì avevo un telefono in mano, un pc sulle gambe, e-mail da controllare, chiamate da fare. Mia nonna si sedeva a tavola alle 11.45 ma io fino alle 13 dovevo lavorare e quindi mangiavo al volo con lei e tornavo con la testa china a produrre contenuti per questi cazzo di social. Vorrei tornare indietro nel tempo e dedicarmi a lei, giocare a carte un’ultima volta, farle assaggiare piatti e ricette di culture lontane, pettinarle i capelli, farmi raccontare la sua vita per ore invece di avere la testa perennemente altrove, svolgendo velocemente il “compitino” di starle accanto.
Ho passato davvero tanto tempo a darmi colpe che non ho prima di iniziare a chiedermi: se fossi stata ricca, se non avessi così disperatamente bisogno di lavorare e di dimostrare che sono brava e produttiva, sarebbe andata così? Se invece di dover cambiare 3 treni regionali per tornare a casa avessi una macchina, sarei potuta andare lì più spesso? Se non avessi vissuto gran parte della mia vita sentendomi inferiore, con il terrore di non poter arrivare a fine mese, avrei potuto passare più tempo con mio nonno, mio padre e mia nonna? Anche quando è morto il mio prozio, una delle persone che ho amato di più al mondo, non ho potuto passare del tempo con lui. Quell’estate stavo facendo la lavapiatti per potermi pagare il secondo anno di università.
Guardo mia madre, il distacco emotivo che da sempre ha nei confronti miei e di mia sorella e mi chiedo: se non lavorasse più di 10 ore al giorno da quando è praticamente una bambina, come sarebbe ora? Se a quasi 70 anni non fosse costretta a fare la cameriera, avrebbe la forza di fare anche solo una passeggiata insieme invece di mettersi a letto appena rientra in casa?
Per anni ho pensato che i miei genitori non fossero interessati a passare del tempo con me. Parlavo sempre da piccola, sempre, ero una bambina iperattiva desiderosa di conoscere più cose possibili. Eppure, me lo ricordo quando mia padre dopo cena mi supplicava di stare zitta. “È cattivo”, pensavo. Era solo stanco, ho imparato a capire col tempo. “La mamma è nevrotica”, pensavo. Era solo ferita da un mondo che non le ha dato nulla se non tanta fatica e tanto dolore. Vorrei solo che si potesse riposare.
Abbiamo fatto così poche cose insieme che riesco a ricordarmele tutte. Si contano sulle dita di una mano: Godzilla al cinema e un pranzo al ristorante nel 1998, era il 22 agosto e c’era stata un’eclissi solare, tante persone avevano comprato i “filtri” per vederla nel negozio di papà e quel giorno avevamo potuto mangiare fuori; una volta il circo, una volta al mare mi avevano fatto una sorpresa mentre ero, come sempre, a Cattolica con i nonni. Non mi viene in mente altro.
So che non sono sola, che tante persone che stanno leggendo queste parole ritroveranno un po’ del loro dolore e della loro rabbia e vi giuro che non c’è un solo giorno in cui io non mi chieda come possiamo radicalizzare queste sensazioni, come possiamo unirci e rivendicare la possibilità di vivere più dignitosamente e di non avere la testa piena di così tante paure da non capire più cosa conta davvero.
Perché in un mondo fatto di ostentazioni, esperienze esclusive e momenti di normalità - come l’annuncio dell’arrivo di una vita - che diventano prodotti di intrattenimento che hanno come unico fine il consumo, io cerco la felicità di quella tavolata e il sapore dei fiori di zucca appena fritti.
È forse per questo che immagini come queste mi angosciano e mi turbano profondamente: una donna ha ripreso il padre mentre moriva, del resto lo aveva ripreso durante tutta la durata della sua malattia, e gli ha chiesto di dire addio ai suoi follower. Nel suo volto, nei suoi occhi, riesco a vedere solo un uomo che vive gli ultimi istanti della sua vita mediati da uno schermo, con una figlia impegnata più a creare un contenuto virale per degli sconosciuti che a tenere la mano di suo padre e a dirgli che lo ama. Magari lo avrà fatto lontano dalle telecamere ma dubito che qualcuno che ha esposto una persona così fragile in momenti così dolorosi abbia avuto l’empatia per comprendere che quello che stava facendo era solo una spettacolarizzazione inutile e deviata di un momento privato. Del resto, dopo la morte del padre è diventata madre e ora a essere esposta 24/24 è la bambina.
So a cosa state pensando: che persona orribile farebbe mai una cosa del genere?
Eppure, la colpa non è sua. I social media sono solo un’estensione di un mondo che ci spinge continuamente a competere per un riconoscimento, sia esso economico o sociale. Questa donna ha semplicemente interiorizzato ciò che vede scrollando ogni giorno, forse aveva della fragilità pregresse che sono state sepolte dalla sensazione di benessere che prova creando connessioni effimere sui social. Questi contenuti sono sempre più frequenti, tanto che ormai vengono trattati da chi li vede come fossero la “normalità”. Chi soffre, chi muore, trova così un nuovo ruolo: diventare un mezzo di intrattenimento. La vera domanda che dovremmo porci è: possiamo davvero consegnare il nostro dolore a piattaforme che non solo ci incoraggiano a condividerlo, ma ci rendono anche dipendenti dai fugaci riconoscimenti che ne derivano? Questa donna avrebbe agito così se non vivesse in un mondo che ci vuole sempre più distanti, atomizzati, dove contano solo metriche e successi personali?
Ricostruire una società significa iniziare a porci queste domande, cercando di riportare alla luce una parola che, purtroppo, sembra aver perso il suo significato: etica. Razionalizzare ciò che ci soffoca, ci disumanizza e ci allontana dagli aspetti più autentici della vita – come l’amore, la gentilezza e la cura delle piccole comunità intorno a noi – è un atto rivoluzionario. Solo così possiamo abbracciare una scala di valori condivisa che ci permetta di rivendicare più spazio per la nostra vita e per i nostri affetti.
Posate il telefono e andate ad abbracciare chi amate.
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Grazie Serena
Non trovo altre emozioni da esprimere se non la gratitudine per questo testo così privato ma anche di profondo valore collettivo
Ho perso mia mamma a maggio! Mi sono ritrovata in tante sensazioni che hai descritto, soprattutto quella del senso di colpa legato alla distanza (vivevamo in regioni diverse). Grazie per queste riflessioni così intime❤️