L'inserimento del termine amichettismo nel Libro dell’Anno 2024 della Treccani – che raccoglie le novità linguistiche più significative legate ai cambiamenti sociali, culturali e di costume – non è soltanto un evento linguistico: è una denuncia camuffata da neologismo. Coniato dallo scrittore Fulvio Abbate, l’amichettismo viene definito come “il comportamento di chi, generalmente da una posizione di potere e prestigio, favorisce i propri seguaci”. È una dinamica insidiosa, specifica della sinistra culturale, diversa dai tradizionali meccanismi di familismo e clientelismo della destra.
Non c’è qui solo nepotismo o convenienza politica: c’è la presunzione di un’etica superiore a giustificare una complicità che si perpetua nel tempo e che mira a diramarsi in ogni singolo spazio culturale di rilievo.
L’amichettismo non è certo un concetto astratto. È un sistema visibile, che ha mostrato tutti i suoi limiti in eventi come Più Libri Più Liberi , quella che Abbate definisce la “cattedrale” di questa dinamica. Per chi non avesse seguito la vicenda, la riassumo in breve: il mese scorso Chiara Valerio, direttrice della fiera dell’editoria Più libri più liberi a Roma e figura di riferimento per la sinistra culturale e femminista, è stata al centro di forti polemiche invitando all’evento il filosofo Leonardo Caffo a presentare il suo nuovo libro sull’anarchia, nonostante fosse sotto accusa per maltrattamenti nei confronti della sua ex compagna. Valerio ha difeso la sua scelta appellandosi al principio costituzionale che garantisce il diritto di parola a chi non è ancora condannato in via definitiva. Tuttavia, pochi giorni dopo la chiusura della fiera, Caffo è stato condannato a quattro anni di reclusione nel processo di primo grado. L’episodio ha suscitato ulteriore indignazione considerando che la fiera era dedicata alla memoria di Giulia Cecchettin, diventata simbolo della lotta contro la violenza sulle donne. La decisione di ospitare Caffo è apparsa a molti incoerente e contraddittoria, riportando al centro del dibattito il termine amichettismo: un sistema di favori reciproci che pervade ogni ambito culturale, dai giornali ai festival, dai programmi televisivi alle radio, garantendo la protezione e il sostegno di una ristretta cerchia di individui all’interno di un “patto di clan”.
Come raccontato da Abate stesso, non è un caso che il termine amichettismo abbia origine da una "rivelazione semantica" nata durante la pandemia, quando un ristoratore e musicista legato alla band di Propaganda Live finì nella bufera per aver sfruttato una rider lavorando in nero. Anche in quel caso, la reazione della sinistra culturale fu caratterizzata da una difesa protettiva, anziché da un confronto critico. Il programma ha ovviamente ospitato Chiara Valerio per rispondere alle polemiche, in un contesto che molti hanno definito di tutela, evitando di mettere in discussione le contraddizioni sollevate dalla vicenda, rafforzando così il cerchio magico del potere dell’amichettismo.
In questa vicenda, ciò che colpisce non è solo il comportamento dei protagonisti, ma l’assenza di critiche dall’interno del sistema stesso. Il silenzio di Chiara Valerio e il silenzio complice di chi le sta intorno sono un segnale chiaro: chi fa parte di questa rete evita di esporne le incoerenze, perché criticarle significherebbe rischiare l’espulsione dal sistema stesso.
L’amichettismo non è un fenomeno isolato o accidentale: è il sintomo di un'egemonia culturale costruita e mantenuta da un’élite borghese, ossessionata dalla necessità di preservare il proprio potere. È un sistema che si maschera da apertura, da rinnovamento, ma che in realtà si regge su dinamiche profondamente escludenti e autoreferenziali.
In Italia, questa egemonia non si limita ai tradizionali spazi culturali come i grandi giornali o le istituzioni pubbliche: ha colonizzato anche gli spazi che si presentano come alternativi. I nuovi progetti editoriali, specialmente quelli nati sui social media come Instagram, si vendono come freschi e indipendenti, ma sono in realtà diretti o finanziati da quegli stessi ambienti borghesi che fingono di criticare. Non c’è rottura, non c’è discontinuità. Ai vertici di queste realtà si trovano spesso gli eredi dei salotti intellettuali milanesi o romani: figli di professori, giornalisti, avvocati, tutti profondamente inseriti in reti di potere culturale consolidate. Si tratta di figure cresciute all’ombra di un sistema che tutela e tramanda privilegi. Accanto a loro spiccano, tra i finanziatori di questi progetti, istituzioni private o grandi gruppi editoriali come GEDI, simbolo dell’élite economica italiana, a testimonianza di un intreccio radicato tra tra potere culturale ed economico.
Questi spazi non solo replicano le logiche della tradizione culturale borghese, ma le adattano perfettamente alle nuove piattaforme digitali. Il linguaggio è giovane, i formati sono accattivanti, ma il contenuto è rigidamente controllato. La promessa di offrire un’alternativa alla stampa tradizionale si rivela presto un inganno: le stesse logiche di potere e controllo che governano i media tradizionali si ripresentano in forma diversa, più seducente e apparentemente democratica.
Ma c’è di più. Dietro molti di questi progetti si nascondono finanziatori privati o addirittura legami con il governo. Alcuni contenuti che consumiamo e condividiamo come liberi e indipendenti potrebbero in realtà essere stati prodotti in collaborazione con Ministeri o istituti legati all’apparato statale. Questo non è solo un problema di trasparenza: è una questione di integrità culturale. Quando un progetto editoriale si presenta come voce fuori dal coro, ma è di fatto influenzato da poteri economici o politici, diventa un mezzo per legittimare lo status quo, non per metterlo in discussione. Quando condividete post di quelle pagine chiedetevi sempre: a chi sto dando visibilità?
Persino i progetti più radicali su Instagram non riescono a sfuggire alla logica del profitto e dell’algoritmo. Parlano a un pubblico che vuole sentirsi illuminato, ma mai sfidato; che desidera indignarsi, ma non agire. Žižek direbbe che questa élite culturale vive in una sorta di zona comfort ideologica, dove l’apparenza di impegno sociale basta a mascherare l’assenza di un vero coinvolgimento. Sono troppo occupati a preservare il loro ruolo di mediatori culturali per sporcarsi le mani con le contraddizioni della realtà.
Questa dinamica ha un effetto devastante: se a far sentire la propria voce sono esclusivamente figure borghesi, portatrici di interessi economici, sociali e culturali legati al proprio status, l’informazione non può che risultare inevitabilmente contaminata da un bias di classe. In questo contesto, la cultura si allontana sempre più dalla realtà quotidiana, ignorando le preoccupazioni e le esigenze delle classi lavoratrici. Non diventa uno strumento di emancipazione o di difesa dei diritti collettivi, ma si riduce a tutelare e consolidare i privilegi della classe dominante. Non è un caso che la stampa mainstream e social eviti accuratamente temi come la povertà, lo sfruttamento, il conflitto sociale. Si concentrano invece su argomenti sicuri, compatibili con la sensibilità borghese e con le logiche di visibilità delle piattaforme digitali, cercando di polarizzare il più possibile il dibattito, selezionando efficacemente il “tema del giorno” da dare in pasto ai lettori. Anche il linguaggio è un indicatore di questa distanza: le parole usate sono spesso complici di un’estetica elitaria, lontana dalle esperienze quotidiane delle persone comuni. Pensiamo ad esempio a tutti quei publiredazionali che alimentano il mito neoliberista del “se vuoi, puoi”, proponendo storie di successo apparentemente accessibili a chiunque, ma che in realtà celano profondi privilegi di partenza. Pensiamo, ad esempio, alla narrazione costruita attorno a Vittoria Zanetti, co-fondatrice di Poké House. Titoli come “Giovani, fate gavetta. Da cameriera a fondatrice di un brand da milioni di euro” hanno celebrato la sua ascesa imprenditoriale, omettendo dettagli cruciali: Vittoria è figlia dei titolari di Zanetti Spa, una delle maggiori aziende casearie italiane, e la sua idea imprenditoriale è stata finanziata dal fondo di investimenti di Angelo Moratti. Questa retorica non solo ignora le disuguaglianze strutturali, ma le maschera dietro la favola dell’imprenditore autodidatta, allontanando ulteriormente il discorso culturale dalle realtà concrete di chi affronta difficoltà sistemiche.
L’amichettismo è una dinamica tribale, un meccanismo di inclusione ed esclusione che garantisce la protezione del clan. Non c’è spazio per l’alterità o la dissidenza: chi non si allinea viene marginalizzato, reso invisibile. E così, gli spazi culturali diventano prigioni dorate, dove le uniche voci autorizzate sono quelle che rafforzano il sistema.
In questo sistema, persino il dissenso è tollerato solo nella misura in cui non diventi realmente pericoloso. Le voci più critiche vengono marginalizzate o assimilate, ridotte a simboli innocui all’interno di un panorama che non ha alcun interesse a cambiare. La cultura non è più un luogo di rottura, ma un mezzo di controllo, una messa in scena che offre l’illusione del dibattito mentre rafforza le stesse gerarchie che pretende di superare.
Un altro elemento caratteristico dell’amichettismo è il silenzio. Il silenzio di Chiara Valerio e quello, ancora più pesante, dei suoi accoliti. Non è un silenzio casuale, ma il silenzio strategico dell’amichettismo: la complicità di chi sa, di chi è parte del sistema e lo alimenta. Questo clima di occupazione sistematica tradisce il principio stesso della cultura come spazio di confronto aperto. Non si tratta più di meritocrazia o di qualità, ma di preservare un’egemonia culturale che si protegge dietro un’aura di superiorità morale.
E poi c’è Gaza. Di fronte al genocidio palestinese, questa presunta intellighenzia alternativa preferisce sviare, tacere, o minimizzare. Non è una questione di disinformazione, ma di sottomissione alle logiche della visibilità imposte dalle piattaforme. Parlare di genocidio, di oppressione, di imperialismo, significherebbe esporsi, perdere follower, rischiare collaborazioni con brand che non tollerano il dissenso. Meglio restare silenziosi o abbandonarsi a un generico appello alla pace, svuotato di ogni significato politico.
L’amichettismo è un tradimento della cultura come bene comune. È il volto di una sinistra culturale che, nel suo sforzo di monopolizzare il dibattito, nega lo stesso pluralismo che dichiara di difendere. E nel farlo, scivola sempre più verso quella che non è altro che una riproposizione mascherata di un sistema elitario. Una casta travestita da comunità etica.
L’amichettismo si alimenta di una dinamica di inclusione ed esclusione. Solo chi si conforma ai codici del clan, ai suoi rituali e alla sua estetica, può entrare a far parte di questo sistema. Gli altri, i dissidenti, vengono emarginati, silenziati. È una forma di controllo che non si esercita con la forza, ma attraverso la sottile imposizione di un consenso implicito. Il potere non ha bisogno di gridare, perché il silenzio fa il lavoro al suo posto.
Questa cultura crea individui scollegati dalla realtà, incapaci di vedere oltre il proprio ruolo di mediatori e interpreti. I loro spazi non parlano mai al popolo, ma solo a una piccola élite che si compiace della propria presunta superiorità intellettuale. La loro narrazione è rassicurante, priva di conflitti reali, costruita per confermare le certezze di chi ascolta. È una cultura priva di spessore, perché si rifiuta di confrontarsi con la complessità e le contraddizioni del mondo.
In questa visione, l’amichettismo non è solo un comportamento, ma un riflesso di un sistema che ha svuotato la cultura del suo potenziale trasformativo. Non c’è più spazio per la dissonanza, per la sfida, per la rottura. Tutto è appiattito, normalizzato, reso inoffensivo. E finché questo sistema resterà intatto, la cultura continuerà a funzionare come una macchina che produce consenso, piuttosto che come uno spazio di autentico pensiero e liberazione.
Il problema non è solo l’ipocrisia, ma il fatto che questa élite culturale finge di essere “alternativa” mentre perpetua lo stesso sistema di esclusione e privilegio che critica. Questi spazi non sono altro che un altro volto dell’amichettismo: reti chiuse, autoreferenziali, incapaci di rappresentare la complessità del mondo che pretendono di interpretare. Parlano di libri, arte e cultura come se questi fossero universi separati dalla vita reale, ignorando che senza una vera connessione con le masse, ogni progetto culturale diventa sterile, elitario, e irrilevante.
Questa distanza si contrappone a esperimenti culturali del passato, nati da intellettuali borghesi che, pur consapevoli del loro privilegio, hanno contribuito a trasformazioni radicali nel panorama politico italiano. Un esempio è Contropiano, una rivista fondata nel 1968 da Massimo Cacciari, Antonio Negri e Mario Tronti. Espressione del marxismo critico e dell’operaismo, analizzava il capitalismo avanzato e le trasformazioni del lavoro, mettendo al centro la lotta e l’autonomia della classe operaia. Pur essendo accademici, i fondatori svilupparono strumenti teorici fondamentali per le lotte operaie, cercando di superare il paternalismo della sinistra tradizionale. Sebbene il loro linguaggio complesso e la loro posizione sociale li tenessero distanti dalla classe lavoratrice, il loro impegno politico e intellettuale mirava a creare un legame concreto tra teoria e prassi rivoluzionaria, come dimostrato dalla partecipazione attiva di Antonio Negri ai movimenti di base come Potere Operaio (parlerò in un altro momento del movimento operaista e dei limiti della visione di Negri, qui mi interessava solo sottolineare la differenza trasformativa tra i progetti del passato e del presente).
La differenza è evidente: dove oggi la cultura si rinchiude in sé stessa, esperienze come Contropiano cercavano di aprire spazi di confronto reale e di azione trasformativa.
In questo contesto, il dibattito culturale italiano appare come una palude stagnante, dove tutto cambia perché nulla cambi. Una scena dominata da borghesi che si applaudono a vicenda, costruendo castelli di sabbia lontano dal mare tempestoso della realtà sociale. Un’egemonia che si perpetua nel silenzio, nella complicità e nella paura di perdere un potere che, ironicamente, si regge solo sulla propria autoreferenzialità.
Quindi, che fare?
Abbiamo bisogno di progetti culturali di rottura, di punti di vista di persone che vivono le problematiche sociali sulla loro pelle e siano in grado di raccontarle in ottica trasformativa. Abbiamo bisogno che la rabbia venga canalizzata in progetti di rivendicazione e non di farci guidare da chi ci vuole mansueti per continuare a legittimare la propria posizione. Abbiamo bisogni di una visione che getti benzina sulle nostre ferite di classe e non che ci dia argomenti di discussione flebili e consolatori.
Ho trovato comprensione e forza in alcuni libri della collana Working Class di Edizioni Alegre, come «Chav» di D. Hunter e «La porca miseria - Memoir di una madre single nei quartieri poveri di Londra» di Cash Carraway, e in saggi come «Melanconia di Classe» di Cynthia Cruz e «Maranza di tutto il mondo, unitevi! Per un’alleanza dei barbari nelle periferie» di Houria Bouteldja, di cui vi parlerò prossimamente. Ma questi esempi restano ai margini, isolati. Sono pochi, e sono pochi perché manca qualcosa di fondamentale nel dibattito sull’amichettismo: la comprensione del fatto che l’assenza di alternative culturali all’egemonia culturale borghese dipende dal fatto che la cultura è un affare da ricchi.
Chi vive ogni giorno combattendo per sopravvivere, chi deve destreggiarsi tra lavoro precario, spese crescenti e pendolarismo, non ha né il tempo né le risorse mentali per raccontare la propria esperienza o elaborare le proprie ferite. Me ne sono accorta scrivendo il mio libro, che uscirà tra qualche mese: ci ho impiegato quattro anni. Lavorando a tempo pieno, affrontando spesso lunghi viaggi quotidiani e le fatiche del vivere, la mia mente non era in grado di dedicarsi alla scrittura nell’unico momento libero che mi era rimasto: la notte. La scrittura è stata, senza dubbio, l’esperienza più dolorosa della mia vita. Un sacrificio immenso, soprattutto nell’ultimo anno, quando non sono praticamente mai uscita di casa. Ogni weekend, ogni serata, ogni giorno di vacanza è stato dedicato al libro, sottratto al riposo, agli amici, alla vita.
La cultura è un affare borghese perché non consente di vivere se non hai risorse economiche alternative. Questa verità cruda è il cuore del problema: la produzione culturale richiede un investimento di tempo e spazio mentale che le classi lavoratrici non possono permettersi. E così, le storie, le lotte, le sofferenze di chi è ai margini rimangono invisibili, silenziate. La narrazione dominante continua a essere quella di chi ha i mezzi per raccontarla, perpetuando un ciclo di esclusione per chi non si può permettere di parlare.
Se vogliamo infrangere questa dinamica, dobbiamo immaginare un sistema culturale diverso, che dia spazio a chi non può permettersi di "sacrificare tutto". Serve una rivoluzione non solo nei contenuti, ma nelle modalità di produzione culturale: stipendi, sostegni economici, riconoscimento del tempo necessario a scrivere e creare come lavoro a tutti gli effetti. Perché solo così le voci taciute possono diventare parte di una narrazione collettiva e trasformativa.
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Vorrei avere la stessa capacità di articolare tutte queste osservazioni in maniera puntuale e lucida come fai tu Serena, ma spesso sono per lo più preso dal fastidio e dalla rassegnazione. Non ho dubbi che sia difficile anche per te e ti ringrazio di aver voglia di fare un lavoro così approfondito su questi temi.
parte delle innumerevoli conseguenze del ridicolizzare l'arte e la cultura ed ostacolarne la propagazione. I ragionamenti STEM applicati ai grandi problemi sociali possono portare a congetture difficili da srotolare