Una volta attorno a questo tavolo si sedevano ogni domenica e per ogni festa almeno 18 persone.
C’era il nonno là in fondo, a capo tavola, il suo corpo piccolo, i vestiti sempre identici, ogni giorno, stagione dopo stagione, per tutta la vita. Ogni volta che vedo passare un apercar per strada, me lo immagino seduto al volante con la sua magliettina a righe col colletto ocra e il cappellino blu. Era sempre il primo a essere servito, il bicchiere di latta di vino sempre pieno, la sua bocca senza denti che masticava piano ma tutto, anche le pietanze più dure ed elaborate, lo sguardo fisso sul TG, anzi, sul giornale radio, continuava a chiamarlo così. Sul lato sinistro del tavolo i suoi cognati, la nonna immediatamente alla sua destra per fare avanti/indietro dalla cucina, le sue figlie una accanto all’altra da quel lato e poi noi nipoti a riempire i posti vuoti.
Ho sempre amato la luce che entra da quella finestra, il parquet, il calore della stufa che obbligava a mangiare a maniche corte chi si sedeva lì davanti anche negli inverni più rigidi.
Attorno a quella tavola eravamo in tanti, circondati da mobili totalmente discordanti tra loro ma allo stesso tempo perfetti per quello spazio , qualcuno era già lì quando i nonni sono arrivati negli anni ‘50, altri li ha trovati il nonno o sono arrivati lì di casa in casa. Era uno spazio davvero piccoli in cui crescere 6 figli, per quello ci siamo sempre abituati a stare stretti, a stare vicini, a essere felici con poco, con quei pranzi umili, molto spesso frutto di ciò che il nonno raccoglieva dall’orto, ma dove le mani si rincorrevano per accompagnare i piatti attorno al tavolo.
Poi pian piano quelle sedie si sono svuotate e sono rimaste solo ombre e fantasmi e occhi che diventano piccoli mentre rimbalzo tra un ricordo e l’altro per mettere a fuoco il suono avevano quelle voci tutte insieme, dov’erano le fossette quando papà sorrideva, com’erano gli occhi del nonno quando raccontava della guerra, che cosa cantavamo noi bambini quando giocavamo sulla scarpata che incrocia lo stradone e va verso la chiesa.
A volte non me lo ricordo più.
Quella tavola ora è sempre più vuota e i silenzi di queste stanze sembrano urlarmi che sono sempre più sola, me lo ripete in continuazione mia nonna nei deliri che la stanno accompagnando al suo tramonto “Perché non ti sei ancora sposata? Perché non hai dei bambini? ”.
Le preparo il pranzo guardando il suo corpo sempre più piccolo, sempre più magro, sempre più corto, è come se si fosse ripiegata su se stessa, come se le sue ossa si fossero spezzate all’interno del suo corpo facendola scivolare sempre più verso il basso, portandola indietro nel tempo a quando era una bambina da tenere tra le braccia e proteggere dal peso del mondo, con le mani sempre più sottili, i capelli sempre più fini, la pelle così fragile che a ogni tocco si riempie di lividi.
Quando sono triste riguardo in loop sempre gli stessi film: Stargate, Jurassic Park, Pretty in Pink, Toy Story, i Goonies, E.T., Alla Ricerca della Valle Incantata, fisso lo schermo e ripeto ogni battuta a memoria, è come un mantra, uno di quegli esercizi di respirazione di quei social guru del cazzo, a voi inspira/espira congiunto con la posizione degli astri, a me “"Un milione di anni fa nel cielo è Ra, Dio del Sole. Sigillata e sepolta per sempre" ...qui non è porta del cielo, è: "porta delle stelle", STARGATE!”.
Sono i film che guardavo da piccola quando avevo la febbre, una sorta di madalaine proustiana che mi riporta alle giornate con le placche in gola a mangiare purè e prosciutto cotto nel letto spostato dalla camera alla sala per non far ammalare anche mia sorella. Ci sono giornate in cui vivo ancora così, lavoro col pc sulle gambe dal letto, cucino 300gr di purè che mangerò direttamente dal padellino ancora bollente e poi mi trascino sul divano, fissando il vuoto.
Ogni tanto penso che la pandemia mi è rimasta attaccata alle ossa, perché sembra così difficile ora parlare con le persone? Incontrarsi, fare amicizie, fidarsi, perché dopo quello che è successo siamo tutti ancora più distanti? Ci sono momenti in cui vorrei solo un abbraccio e poi finisce che tengo il telefono in mano per ore alla ricerca di un po’ di dopamina mentre scrollo video degli angoli più remoti di TikTok, il mio cervello non è mai in grado di fermarsi, per quello poi mi metto a unire i puntini, a cercare trend, lati oscuri, connessioni, vorrei capire cosa porta le persone a cercare di prendersi così tanto spazio effimero come quello che sembra infinito ma in realtà è racchiuso tra un limitato numero di pixel quando là fuori c’è un mondo da ricostruire.
Quando sto con mia nonna penso che ciò su cui dovremmo puntare prossimamente è il concetto di cura come risposta collettiva all’individualismo che ci avvolge.
Ma poi torno triste, sola e insicura e passo il tempo a leggere le recensioni con immagini dei prodotti per cani, una grande passione che può tenermi sveglia per intere notti.
Eppure una volta per esser felice bastavano quelle mani che si intrecciavano per passare piatti pieni di pasta al sugo, perché ora ci sentiamo perennemente così vuoti e stanchi?
Sì sì, lo so, ora vorresti offrirmi un caffè: puoi farlo virtualmente qui, sperando di vederci presto dal vivo: https://ko-fi.com/serenadoe
Condivido, ma in parte: dubito che universalmente i tempi andati fossero migliori; sono però un feticcio necessario.