Ho passato praticamente tutta la mia vita a sentirmi inadeguata.
Quando ero piccola mi arrampicavo sulle sedie in legno del tavolone che sta al centro del salotto della casa della nonna Rina e scrivevo delle lunghissime lettere a Babbo Natale. Mia cugina era più piccola di me e le scriveva identiche alle mie. Il problema, però, è che puntualmente a Natale lei riceveva quello che aveva desiderato. Io no.
La prima volta mi ricordo che chiesi a mia madre se Babbo Natale avesse sbagliato indirizzo. L’anno dopo avevo iniziato a pensare di non essere stata abbastanza brava, meritando di ricevere solo mutande, canottiere e libri. Poi ho smesso di credere alla magia del Natale, che ancora oggi è un giorno che odio perché mi ricorda un profondo senso di disagio e di ingiustizia.
La differenza tra me e mia cugina era semplice: mia madre aveva sposato un povero Cristo, la sua un albergatore.
Quando ero bambina questa semplice ma sostanziale differenza non mi era così chiara ma si è radicata nel tempo, iniziando a circondare il mio corpo come una melma che mi rendeva difficile anche solo camminare mentre tutti gli altri correvano.
A 15 anni ho iniziato a lavorare tutte le estati. I miei compagni di scuola andavano al lago, a fare aperitivo, si innamoravano, tornavano a settembre abbronzati e riposati. Io no. Per lunghi anni ho fatto la baby-sitter poi ho iniziato a fare la cameriera stagionale in quei posti che da maggio a settembre si riempiono di turisti. Smettevo di contare arrivata attorno ai 500 caffè. Erano passate, di solito, 2 ore delle 12 che avrei passato lì, in piedi, a salutare con la mano da lontano i compagni di scuola che si rincorrevano nell’acqua. I miei mi dicevano: “Se vuoi fare l’università te la devi pagare”. Perché qualcosa che sarebbe dovuto essere un diritto mi ha proibito di vivere serenamente la mia adolescenza? Ancora una volta, pensavo di essere io il problema. Forse non meritavo nulla.
All’università le cose non sono andate tanto diversamente: lavoravo full-time, studiavo di notte, d’estate tornavo a casa a fare i lavori stagionali. Se mi guardo le braccia sento ancora il peso dell’acqua dei grandi lavelli dei ristoranti in cui ho lavorato, il grasso della carne e le lische di pesce attaccate alla pelle. Non mi davano la borsa di studio perché l’ISEE calcolava il valore del magazzino del negozio dei miei genitori, anche se era lo stesso da 20 anni perché non vendevano nulla, tant’è che l’hanno chiuso. Non mi davano la borsa di studio perché facevo tutti gli esami del secondo semestre a settembre, dovendo lavorare, anche se avevo praticamente tutti 30L, almeno in magistrale. Quando non lavoravo nei ristoranti lavoravo come animatrice, obbligata a cantare gli inni a Gesù Cristo pensando che a casa, sulla scrivania, avevo 6 volumi da leggere, studiare e ripetere per la sessione di settembre.
Finita l’università ho iniziato a lavorare alla mensa scolastica covando un estremo rancore dentro il petto: mi avevano offerto un dottorato a titolo gratuito, che ho dovuto ovviamente rifiutare, e nella mia testa continuavano a rimbombare come un’eco distorta le parole di mio padre “Studia e troverai un lavoro”. Non trovavo un cazzo di niente, avevo risposto a più di 700 annunci su LinkedIn e nessuno mi aveva risposto. Me ne son andata a Londra a pulire cessi, sempre più incazzata, sempre più curva, sempre più disillusa.
Tutto ciò mentre vedevo miei coetanei trovare come primo lavoro “Digital media marketing manager presso Sony”(ascoltava solo Cesare Cremonini e non aveva mai fatto nulla a livello musicale, a differenza mia che scrivevo recensioni da 10 anni), “Content specialist presso Discovery Channel”, “giornalista”.
Col tempo controllare il percorso scolastico e cercare l’albero genealogico di queste persone era diventata la mia ossessione: Bocconi, Cattolica, Master in Stocazzologia, genitori che lavorano in borsa, che hanno un’impresa, che sono medici. Ah, il 99% dei giornalisti ha i genitori giornalisti.
Odiavo i miei genitori, li consideravo dei falliti, odiavo mio padre e il negozio di merda in cui ha investito tutti i risparmi della vita per non vendere un cazzo di niente, li odiavo perché avevo dovuto lasciare a loro l’eredità di un prozio, li odiavo perché mio padre si muoveva per la città scorrendo lento addosso alle pareti, per non farsi vedere, per non interagire con nessuno. Si vergognava come un ladro perché era povero, perché da quando sono nata l’ho sempre visto vestito uguale, coi jeans sgualciti e le scarpe rovinate e mi faceva incazzare da morire il suo tentativo di sembrare un ricco in occasioni totalmente prive di senso, come quella volta che si è fatto prestare il macchinone dal padrone di casa per venirmi a prendere a una festa, sempre indossando quei cazzo di pantaloni. “È proprio un coglione”, avevo pensato, perché quella macchina del cazzo mi faceva sentire ancora più a disagio della Panda scassata di merda che avevamo. Tre mesi dopo aver chiuso il negozio è morto per la vergogna. A distanza di 10 anni vorrei solo tenergli le mani e dirgli che non è colpa sua, è partito dall’orfanotrofio, ha fatto il possibile per cambiare la sua vita e la nostra, è stato, nonostante tutto, il miglior padre che potessi desiderare.
A distanza di 10 anni so che se cammino lenta addosso alle pareti è perché ho creduto tutta la vita di non meritarmi niente, quando il niente che ricevevo non era colpa mia ma della mia classe sociale.
10 anni fa il miglior lavoro del cazzo che sono riuscita a trovare è stato inserire le descrizioni dei prodotti su un e-commerce in 12 lingue diverse. Copia e incolla. Copia e incolla. Copia e incolla.
Tutto il cazzo di giorno.
Tornavo a casa la sera con il cervello devastato e non riuscivo a scrivere. Volevo fare la giornalista. Hahaha Serena, ma come cazzo hai potuto anche solo crederci?
Avevo degli attacchi di panico così profondi e continui che in quell’ora di tragitto casa-lavoro che mi faceva passare ogni mattina per il centro di Torino, ogni volta che la porta del tram 15 sbatteva contro le pareti in metallo mi ripetevo “Ogni lavoro conta, ogni lavoro conta, ogni lavoro conta”. Mi sentivo una cazzo di fallita.
Nonostante la mia vita sia migliorata da allora, quello che non sono riuscita a cambiare è il perenne senso di soffocamento che occupa gran parti delle mie giornate.
Ogni mattina, appena la sveglia suona, ripercorro quello che è ormai il mio rituale: urlo “aaaaah”, mi giro, continuo a urlare nel cuscino e mi rammarico di non essere morta.
Lo so, starete pensando che mi serva uno psicologo, uno psichiatra o, in generale, un qualche tipo di terapia: l’ho già fatta.
Esternamente penserete che faccio un bel lavoro, insegno, porto avanti progetti, inchieste, soddisfazioni. Dovrei forse essere felice di me e dei miei risultati? La verità è che io non sento nulla. Non sento più un cazzo di niente. Mi sveglio pensando che dovrò sprecare tutto il mio tempo davanti al pc a fare cose che mi piacciono ma che non ho scelto, a scrivere strategie che nessuno metterà in pratica e a ricevere queste richieste:
Persone con il mio stesso numero di follower che richiedono per fare 2 set da 3 stories 6.700€. Badate bene che queste sono proprio quelle persone che vi prendono per il culo tutto il giorno dicendo che i loro “progetti”, li fanno per voi. Loro vogliono salvare il pianeta per voi, condividere ricette vegane per voi, vendere vestiti vintage per voi, suggerirvi nuovi prodotti che loro hanno provato per primi, ricevendoli in regalo oltre a prendere migliaia di euro, ma lo fanno per voi.
Allora perché le case le comprano loro, 5 viaggi all’anno li fanno loro e voi arrancate nelle vostre vite sentendovi delle merde perché vi permette di andare fuori a mangiare ogni tanto?
Gente che ha un tasso di interazione delle 0%, a meno che non piazzi davanti lo schermo la nonna malata, la mamma boomer, il fidanzato di un’altra cultura/religione. Gente che fino a 6 mesi fa chiedeva 9.000€ per un reel e ora ne chiede 34.000€.
Gente che ostenta ricchezza ogni cazzo di giorno, che affitta ville da 20 stanze per soggiornarci da solo e poi elemosina i mobili per la casina nuova, perché a loro è tutto dovuto perché hanno i cazzo di follower.
Gente che non sa un cazzo di niente, che si è istruita guardando i vide su YouTube e che rimastica concetti già semplici, buttandoveli in faccia come se fossero la cazzo di stele di Rosetta, quando non stanno dicendo NULLA.
E qui veniamo al grande problema del nostro tempo: la stocazzologia.
Questa è una che tutti i giorni vuole insegnarvi la vita. “Io non so nulla in questo campo”. Lei si legge gli articoletti, li riassume, vi fa i reel con le faccette e tutti la applaudono. E partecipa ai panel, agli eventi, fa formazione alle aziende. Non sapendo un cazzo. Nel messaggio successivo mi scriveva che non aveva più voglia di lavorare 8 ore al giorno. E qui torniamo al tema della classe sociale.
La tv, gli scaffali delle librerie e i negozi di gadget sono ormai pieni di prodotti di consumo con le faccette di cazzo di gente che è riuscita a costruirsi un seguito avendo il tempo e il disagio mentale necessario per autoproclamarsi esperta in determinati temi. Per riuscirci, devono abbracciare non solo le logiche sociotecniche e plasmarle ma anche mettere in campo tutta una serie di paradigmi estetici: c’è chi si mette un microfono finto davanti e i neon colorati alle spalle, chi usa una certe mimica facciale, chi investe soldi per circondarsi di oggetti che servono per un determinato posizionamento sociale. Stanno tutto il giorno sulla piattaforma a commentare i post degli altri, i post dei quotidiani, i post dei profili più seguiti, al solo scopo di farsi cagare da qualcuno.
Il brusio che emanano, la corsa alla condivisione del tema del giorno nei loro feed per diventare virali, mi ricorda quando mio nonno Carlo lanciava il mangime per le galline nel prato e quelle arrivavano veloci starnazzando, rubandosi i granuli dal becco l’un l’altra.
Non gliene frega un cazzo di agire collettivamente. Pensiamo a tutti i profili che hanno in bio “Voglio veganizzare il mondo” o “Combatto il patriarcato”: vi siete mai chiesti perché non uniscono le forze (i follower) in un unico profilo in cui condividere le ricette o i caroselli aesthetic sui peli, invece di farne tanti diversi che interagiscono tra loro solo tramite commenti che servono a posizionare il loro profilo? Molto semplice: tornate più in alto, guardate la tabella dei compensi e rispondetevi. Mirano tutti solo e unicamente a essere un profilo commerciale e a vendere più prodotti possibili, rendendosi loro stessi un prodotto riconoscibile nel grande bazar delle identità stocazzologhe. Che potenza, sorella.
Ho passato 3 anni della mia vita a fare ricerca su un tema, a fare una proposta di legge su un tema, prendendomi per anni insulti, minacce, diffide. Eppure, ci sono persone che recentemente si stanno prendendo tutta la visibilità del caso, che non mi citano mai pur usando i miei dati e che a differenza mia hanno solo una cosa: la ricchezza.
Il problema è che la stocazzologia appiattisce il dibattito e rende il mondo culturale una farsa. Negli ultimi giorni mi è venuto il voltastomaco a vedere che c’erano 200 contenuti identici sulla puntata di Vespa con “i 7 uomini che parlano d’aborto” e questo screen:
Bene, bravi, lo avete già usato in 200 altre occasioni, ogni persona con un minimo di seguito lo sta riproponendo, ecco come mi sento io:
Ieri Scurati ha condiviso il discorso dedicato al 25 aprile che avrebbe dovuto tenere a “Che Sarà” di Serena Bortone, che per prima ha fatto un post. L’account instagram del programma ha poi condiviso un video in cui la giornalista e conduttrice ha scelto di leggere le parole dello scrittore.
Eppure, decine di profili molto seguiti hanno deciso di condividere il discorso con la grafichetta e i font che li identificano e di scaricare il video e ripubblicarlo, chiedendo ai proprio follower di renderlo virale.
Una volta sui forum se qualcuno apriva una discussione che era già stata aperta veniva segnalato agli admin e il suo post rimosso. Sui social, invece, sono sempre tutti costantemente in competizione per assorbire quanta più visibilità possibile.
Come le galline di mio nonno. Coccodè.
Vedo alcune delle persone che stimo di più non aver mai spazi in cui parlare ed esprimere le loro idee perché hanno deciso di non piegarsi alla logica della lotta per due like. L’intellettuale organico di Gramsci è stato sostituito dallo stocazzologo che cerca reach organica per migliorare il proprio potere social(e), e cioè commerciale, per poi venderci libri con ZERO NOTE e ZERO BIBLIOGRAFIA in cui spacciano nozioni di Chomsky per proprie. Il problema è che così non avremo mai un reale cambiamento sociale ma continueremo a sentirci parte di qualcosa per il solo fatto di aver messo like all’ennesimo meme identico che non spiega nulla, oltre al fatto che ormai chiunque si sente in diritto di dare la propria opinione su temi di cui non sa assolutamente nulla perché la stocazzologia è come un virus Zombie di un film di Romero: estremamente infettiva, ci mangia il cervello.
Domani mattina mi sveglierò, urlerò di nuovo nel cuscino e piangerò perché da 4 anni sto cercando di scrivere un libro, mentre vedo persone pubblicare intere pagine copiate della mie stories, nonostante non debbano fare altro che scrivere, dato che sono mantenute o guadagnano 30.000€ con un post. Domani mattina mi sveglierò e mi ricorderò che ogni giorno devo dire di no a chi mi chiede di scrivere articoli e a chi mi aveva invitato a scrivere un saggio in collaborazione con il mio mentore eterno Geert Lovink perché non ho tempo. Non sarò mai un’intellettuale organica della sinistra stocazzologa di instagram perché devo lavorare sempre, perché non accetto 6.000€ per fare 2 stories distruggendo per la bramosia di denaro i miei ideali, pensando che metto tutti i miei risparmi in un “conto portafoglio” dedicato a Ophelia, la figlia che forse non avrò mai e per la quale penso ogni giorno che non voglio che faccia la vita di merda che ho fatto io. Domani mattina mi sveglierò, piangerò ma non mi sentirò più in difetto, come quando ero piccola. Ho semplicemente capito che non c’è posto per me e che è inutile continuare a sforzarmi. Non sento più nulla e va bene così.
Leggo sempre questo commento, vorrei abbracciare quella ragazza e dirle che siamo in tanti a volere solo una vita più dignitosa. Rendersi conto di non avere colpe è un processo difficilissimo, reso ancora più difficile dal fatto che viviamo in una società in cui chi è povero si vergogna di esserlo, compra prodotti a rate, si veste bene, cerca di abbracciare le tendenze, pur di non doversi rendere invisibile camminando contro le pareti con i pantaloni vecchi e sgualciti. Chi è ricco continuerà a far finta di essersi meritato quello che ha, nascondendo sempre le condizioni materiali di partenza o non avendo l’onestà intellettuale di dire che ha avuto, semplicemente, culo. È una retorica disarmante, perché ci pone costantemente sul piano di doverci giustificare con noi stessi e con gli altri: non ce la faccio perché non me lo merito. Ma non è così.
Ora sprecherò l’ennesima domenica, come faccio da mesi, davanti al pc, cercando di cavare fuori da un cervello stanco qualche pagina di quel libro che ormai odio e amo, pensando a quelle che se lo son fatte scrivere da un ghost writer mentre continuavano a fare balletti su TikTok.
Ricordatevi che se non ce la fate non è colpa vostra e che non esistono gare tra campionati diversi. Non camminate contro le pareti.
A presto,
S.
P.S. Ho visto che moltissime persone mi hanno mandato la richiesta per abbonarsi alla newsletter con l’abbonamento a pagamento. Mi dispiace, ma se lo attivassi la newsletter diventerebbe a pagamento per tutti e non voglio, substack non permette di inserire un importo più baso di 5€ al mese e so che ci sono persone che non possono permettersi di affrontare nessuna spesa extra. Quindi vi ringrazio, non posso rispondere ai vostri messaggi se non attivo quell’opzione ma ho apprezzato il vostro sostegno, davvero. Se proprio volete sostenermi, mi potete offrire il costo di un caffè qui.
Io spero che un giorno tu riesca a vederti con occhi esterni per realizzare quanto sei incredibile, quanto il tuo lavoro sia importante e quanto sia riuscita a trasformare questo percorso di vita così difficile in un esempio (ma vero!) di eccellenza. Riposati e prendi tutto il tempo....anche se non vedo l'ora di leggere il tuo libro ❤️
Ciao Serena, complimenti per la tua newsletter. Penso che scegliere di condividere sui social aspetti così intimi del proprio passato familiare e della propria vita non sia stato facile, al contrario abbastanza doloroso, e credo che tu abbia fatto un vero e proprio atto di coraggio, anche per chi, come me, ti segue e riconosce che queste sono le tematiche di cui ti occupi quotidianamente. Grazie per aver scelto di farlo in quanto ciò può aiutare soprattutto chi si percepisce solo e sbagliato ad avere un po' di conforto e chi non ha una coscienza di classe ad iniziare a ripensare alla struttura sociale con un minimo di senso critico. Di nuovo grazie. Ti abbraccio. Ciao